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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2012 alle ore 07:59.
L'ultima modifica è del 27 settembre 2012 alle ore 10:36.

Se qualcuno vuole fare un referendum sull'euro, c'è da sperare che anzitutto siano spiegati bene agli italiani costi e benefici che in questi 14 anni l'euro ha dato all'Italia e – seppure non sempre in parti identiche – ai suoi cittadini.

Lo stesso si può dire per il fiscal compact: è dopo averlo già messo in Costituzione, che adesso dovremmo bocciarlo?
Il modo confuso con cui procede il nostro "essere europei" (il sogno di tanti nostri antenati!) dipende in parte dal modo poco lineare, direi un po' a zig zag, con cui cresce l'integrazione europea. Nel giro di due anni, abbiamo avuto un centinaio di pagine di nuove norme: prima l'Europlus, poi il Six-pack, quindi il fiscal compact; infine il Two-pack. Immagino che poche persone – sui 330 milioni di individui che hanno in tasca l'euro – abbiamo letto (e capito!) tutte quelle pagine. E il sospetto è confermato dal diffusissimo errore con cui si cita l'impegno a tornare, in vent'anni, a un rapporto debito/Pil del 60%. Quante volte abbiamo letto che ciò significherà una «manovra di 45 miliardi all'anno» per 20 anni, cioè sufficiente a strangolare ogni economia? Quando in realtà il trattato prevede che si torni al 60% con una riduzione annua pari a un «ventesimo dell'eccedenza» (i 45 del primo anno sono già minori l'anno dopo!).

Ed è soprattutto da ricordare che il rapporto si riduce in modo virtuoso con la crescita, cioè con l'aumento del denominatore. A ben guardare, il tema è uno solo: come condividere un po' di sovranità fiscale, visto che abbiamo già messo in comune la sovranità monetaria e ci siamo accorti (ormai da 3 anni!) che la cosa non funziona.
Come ha sottolineato a Londra il 26 luglio Mario Draghi, l'euro è un calabrone che vogliamo far diventare ape, perché così potrà volare nel rispetto delle leggi della fisica (e, aggiungo io, perché così avremo anche il miele, e non solo pericolose punture). In natura, queste cose non succedono e quindi occorre la buona volontà, e la speranza in un futuro migliore, di tanti cittadini e dei loro Governi.

In concreto, ricordiamo quali sono gli aspetti principali – di metodo e di contenuto – che caratterizzavano tutto questo insieme di norme: alcune sono regolamenti; altre direttive; altre ancora norme di rango superiore, cioè che appartengono a un trattato destinato in parte a essere Costituzione di ciascun Paese.
La risposta non è agevole, perché se da un lato si fanno passi avanti nella realizzazione di un efficace coordinamento delle politiche di bilancio dei Paesi membri, si stabiliscono anche obblighi e divieti che avrebbero senso solo se la corrispondente sovranità fosse davvero trasferita ad un livello comune (come è avvenuto per la politica monetaria) e non soltanto "rinunciata". Questo è probabilmente il punto più controverso per la famiglia degli economisti: il fiscal compact riduce di molto la possibilità di aumentare il debito pubblico di ciascun Paese.

Il che può essere necessario per quei Paesi che ne hanno già da smaltire una dose eccessiva, il cui danno si ripercuote, con un vero e proprio contagio, sugli altri Paesi Ue. Ma proprio perché la sovranità non è un "diritto", ma un "dovere", è normale prevedere che possa essere trasferita, ma non che sia rinunciabile.
Dopotutto, è solo per questo che il nuovo trattato ha ricevuto il nome di Fiscal compact, dove compact è qualcosa di più di pact. È stato infatti esplicitamente evocato il nome dato da Alexander Hamilton (segretario del Tesoro di George Washington) all'accordo con cui nel 1790 il Governo federale americano assume il precedente debito dei 13 Stati che allora formavano l'Unione.
Almeno i tanti economisti keynesiani che da anni auspicano che la Bce si muova come la Fed, dovrebbero ricordarlo.

Anche se si comprendono da un lato le opposte preoccupazioni, di chi teme che con questo trattato "l'ape diventi un calabrone", cioè sia rovinato quel tanto di buono che finora la Bce ha saputo fare. E dall'altro, i timori che l'Unione resti priva di una politica per la stabilità macroeconomica, avendo in comune solo un "rigore" fine a se stesso.
Non essendo peraltro più pensabile una politica keynesiana a livello locale: basta vedere il contenuto di importazione delle spese keynesiane (si fa per dire...) del Consiglio della Regione Lazio, per capire che se fai tu solo politiche di sostegno della domanda interna, finisci col fare regali agli altri Paesi!

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