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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2012 alle ore 08:05.

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Nessuno vuole vivere nel Paese con i cieli rugginosi o il mare color del minio e l'incubo del tumore. Ma la crociata giudiziaria e presuntamente ambientalista che sta imponendo la chiusura dell'Ilva ha impresso agli eventi un'accelerazione che rischia di compromettere la presenza della prima acciaieria d'Europa nel sito dove opera da più di 50 anni.

Il risultato rischia di essere una città con il cielo color del cielo e il mare color del mare, ma spopolata o ridotta a gigantesca bidonville per il crollo della principale fonte di occupazione e ricchezza. Non aver accolto la banale argomentazione secondo cui è impossibile organizzare investimenti ingenti per la messa a norma degli impianti senza far continuare almeno parte della produzione, dà il segno di una volontà ultimativa e irrazionale. Alberto Orioli Se a questo si aggiunge che le norme cui adeguare i comportamenti produttivi sono il frutto di scelte regionali fuori linea – quanto a severità antindustriale – rispetto a ogni disciplina europea (e figurarsi extraeuropea!) il fare impresa in questo caso diventa proibitivo. Il Gip nell'ordinanza di ieri scrive che «non si mercanteggia» che la richiesta dell'azienda «è sconcertante», espressioni più proprie della politica e della fazione che non dell'oggettività del linguaggio tecnico-giuridico.

Sono altrettante "spie semantiche", come direbbe qualunque semiologo, di una volontà spregiativa e pregiudiziale. Infatti, forte di questi assunti e delle conclusioni cui erano giunti in mattinata i custodi, veri antesignani delle sue deliberazioni, il Gip tarantino ha imposto la chiusura degli altiforni, compreso il numero 5, il più grande, quello che produce 8mila tonnellate, il simbolo storico dell'acciaieria pugliese. Insomma, un colpo al cuore pulsante di quell'impianto. L'azienza deve far fronte alle proprie responsabilità, nessuno lo nega. Deve anche produrre il massimo sforzo economico finanziario per mettere in campo tutti gli investimenti utili a superare lo stallo; deve anche fugare i dubbi che gli stanziamenti annunciati finora siano fondi continuamente riproposti e mai aumentati davvero. Ma la "ghigliottina giudiziaria" non deve, nel frattempo, tagliare testa e arti di un colosso a quel punto irrecuperabile. I concorrenti europei non chiederebbero di meglio, per loro sarebbe una festa.

I 400 milioni già stanziati per un primo rapido intervento di bonifica non possono comunque essere considerati bruscolini, soprattutto perchè arrivano dopo una spesa di oltre un miliardo (in quattro anni) per opere di sostenibilità ambientali in uno stabilimento che, rimasto per decenni di proprietà pubblica, mai aveva visto alcuno sforzo economico indirizzato al bene primario della tutela della vita e della salute. Ora l'Autorizzazione integrata ambientale deve diventare l'unica, vera sede istituzionale dove regolare la partita, senza fughe in avanti di questo o quel magistrato. Questione di pochi giorni, di ore, poi arriverà il verdetto del ministero che imporrà all'impresa tempi di adattamento per la bonifica e standard produttivi. La chiusura non è la strada giusta. Ha un costo sociale intollerabile di molte migliaia di dipendenti (e il presunto reimpiego nella bonifica è una ingenuità perchè riguarda solo poche centinaia di lavoratori).

È soltanto uno straordinario autogol: la pressione ingenerata dalla magistratura diventa soltanto ossigeno per chi, in loco e non solo, fomenta una cinica campagna elettorale personale nel nome di un ambientalismo senza senso della realtà. Per il resto, produce solo un drammatico "tutti contro tutti". La fuga in avanti giudiziaria ha portato questa vertenza su un piano inclinato che scivola diritto verso la desertificazione industriale. Il caso Ilva è osservato all'estero con particolare attenzione: conoscono il marchio e l'eccellenza delle sue produzioni e proprio sulla base dell'esito di questa "storia italiana" si faranno l'idea generale su quale sia il grado di attrattività degli investimenti. E sulla base di quell'esito decideranno se investire o no. L'Italia è già all'87esimo posto nella classifica della Banca mondiale "Doing business", al 16esimo posto per investimenti diretti esteri in entrata; la domanda interna è preda di una glaciazione che dura ormai da diverse stagioni (e il dato Istat di ieri lo conferma), gli investimenti pubblici e privati sono crollati.

La crociata anti-industriale che viene da Taranto non aiuterà certo a modificare questo quadro. Nè aiuterà a colmare quel divario tra le due Italie messo in luce, sempre ieri, dalla Svimez. Tutt'altro. Darà semmai una motivazione in più per chi cerca alibi per lasciare il Paese, come ad esempio la multinazionale svedese del biomedicale Gambro, seriamente – e pericolosamente – orientata a rivedere il suo posizionamento strategico, dati i ritardi con cui le istituzioni hanno rispettato gli impegni sulla ricostruzione del dopo terremoto in Emilia. Un puzzle tragico di un Paese che sembra assistere impotente e imbelle al disgregamento industriale, allo sfarinamento delle eccellenze produttive. La risposta sta in un programma ambizioso di riconversione produttiva in senso sostenibile; l'ambiente può diventare driver di sviluppo industriale come insegnano le storie delle tante imprese italiane impegnate sui mercati di tutto il mondo giocando proprio l'eco-compatibilità come plus competitivo.

Ma serve un disegno di sistema Paese, una dotazione cospicua di risorse nazionali e non (ma a ben guardare, tra Cdp, fondi strategici, fondi Ue e fondi Bei, quello del finanziamento potrebbe non essere il principale problema) e un orizzonte di medio periodo per le scelte strategiche. La politica industriale è la stringente prosecuzione della politica del rigore: ha lo stesso impatto, la stessa urgenza e un assai maggiore potenziale di sviluppo e di equità.

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