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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2012 alle ore 08:01.
L'ultima modifica è del 27 settembre 2012 alle ore 10:39.

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Il bello (si fa per dire) della condanna confermata ieri dalla Cassazione a carico dell'allora direttore di Libero Alessandro Sallusti è che, per una volta, dovrebbe mettere tutti d'accordo. Anche chi dal modo di fare informazione di Sallusti è assai distante. La condanna al carcere di un giornalista fa fare al Paese un grottesco passo indietro. A tempi in cui Giovannino Guareschi finiva dietro le sbarre per avere diffamato l'allora capo del governo Alcide De Gasperi. Un Guareschi a suo modo recidivo, visto che aveva in precedenza subìto altra condanna, vilipendio ai danni del presidente del Repubblica Luigi Einaudi, per una vignetta (i corazzieri al barolo). Altri tempi, si pensava. E invece no. La pronuncia di ieri, di cui sarà necessario leggere le motivazioni naturalmente, ha pochi precedenti e nessuna giustificazione.

Sanzionare con il carcere un giornalista per un articolo forse neppure scritto (era firmato con uno pseudonimo) fa arretrare lo stato del dibattito pubblico a un livello di cui non si sentiva affatto la mancanza. Qui non è in discussione naturalmente la responsabilità sempre più ampia e da declinare su sempre nuovi canali informativi del giornalista. Una responsabilità che chiunque faccia questa professione deve sentire come contraltare di un potere comunque ancora forte di intervento, per qualcuno anche di influenza, sulla formazione dell'opinione pubblica attraverso l'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito come quello di cronaca. Nessun arroccamento corporativo quindi.

In discussione c'è piuttosto la gravità della sanzione inflitta. La detenzione non è praticamente mai inflitta al giornalista per il reato classico che un reporter può compiere: la diffamazione. Il meccanismo giuridico che evita il carcere prevede infatti la sterilizzazione dell'aggravante, di solito avere commesso il reato con il mezzo della stampa, attraverso il riconoscimento delle attenuanti. Un riequilibrio che cambia in maniera drastica il perimetro della norma applicabile. Dalla severissima legge sulla stampa che all'articolo 13 punisce la diffamazione con una pena che può arrivare sino a 6 anni di carcere, limite che tra l'altro renderebbe possibile anche la custodia cautelare, si passa, effetto proprio del bilanciamento delle circostanze, al più "normale" Codice penale, che, all'articolo 595, prevede l'alternativa tra carcere e multa. E il giudice a quel punto infligge la sanzione pecuniaria.

Un percorso che forse pecca di un eccessivo barocchismo giuridico. E che, se la sentenza di ieri ha un pregio, è quello di mettere in discussione. A partire dalle fondamenta però. E cioè dalle norme applicabili. Il ministro della Giustizia Paola Severino si è detta d'accordo. Ed è già un buon viatico. Perché a dovere essere riformata dovrebbe essere la stessa legge sulla stampa, e magari se si volesse essere un po' più coraggiosi, il Codice penale. Non cancellando le sanzioni, che devono restare a garanzia di tutti i cittadini; ma eliminando dall'orizzonte giuridico la possibilità di una condanna detentiva.
La pena allora, magari rimodulata, sarebbe unicamente quella pecuniaria. Una scelta che avrebbe poi l'effetto positivo di rimettere l'Italia in linea con quanto più volte affermato da un altro giudice, questa volta internazionale. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha infatti più volte avuto occasione di sostenere l'assoluta illegittimità della condanna alla detenzione per un giornalista.

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