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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2012 alle ore 13:45.

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In tempi di ri-centralizzazione della forma-stato, in cui pare che la salvezza venga solo dall'alto e dalla critica all'orizzontalità della rappresentanza, ci si può chiedere se la politica locale sia ancora un luogo di rinnovamento delle élite che vada oltre l'immagine di gerontocrazia della classe dirigente.

Un interessante osservatorio sono le trasformazioni che sta vivendo il ceto politico locale che governa i comuni italiani. E che ho analizzato con una ricerca orientata a capire i 26.654 giovani amministratori tra i 18 e i 35 anni che costituiscono oggi il 21,2% del totale degli amministratori comunali. Evidenziando una prima frattura tra contado e città. L'81,5% di loro amministra comuni con meno di 10.000 abitanti. Sono frutto della fibrillazione dei piccoli comuni polvere in cui spesso l'istituzione è l'unico centro gravitazionale della comunità. Al contrario delle città medie e grandi dove il giovane amministratore diventa una specie in rapida rarefazione (sono l'11,5 % nelle grandi città).

È qui, d'altronde, che la politica locale diviene professione e le chiuse del potere si serrano. Intervistandoli si capisce come nell'Italia dei borghi la politica si strutturi per reti associative, di volontariato, tra pro-loco e parrocchia. Mondi vitali per lo più esterni ai partiti nazionali. È in questo milieu civico palestra di democrazia, che il giovane candidato costruisce relazioni, conoscenza del territorio. Alla base della decisione di candidarsi per il 64,7% non l'ideologia, quanto l'etica del "servire la comunità". La loro esperienza ci insegna che non é vero che i giovani non fanno politica. Affermazione che ho sempre trovato curiosa in un paese che tra 2000 e 2008 ha visto susseguirsi movimenti a base giovanile potenti, dai no-global agli studenti.

Quando li intervisti ti dicono piuttosto che sono le forme intermedie della rappresentanza che non riescono più ad intercettarne l'impegno. In maggioranza vedono il partito come una macchina del potere che non pensa più il territorio ma impone la fedeltà al "cacicco" locale. E allora si capisce come il vero "tappo" non stia tanto nel tema generazionale in sé quanto nell'iper-personalizzazione correntizia della politica, in una rappresentanza che non serve più ad aprire gli accessi alla partecipazione quanto a selezionare un'appartenenza di ceto. È nel cuore del sistema il blocco. Sono un ceto colto i giovani amministratori: il 35,4 % di loro è laureato e il 31,3 % è espressione di strati professionali, tecnici o dirigenziali. Solo il 5,9% è disoccupato. Il 55,6% di loro era già una persona conosciuta nella vita pubblica del comune al momento della prima candidatura e appaiono soggetti centrali nella vita delle loro comunità.

Sono élite in formazione nei microcosmi territoriali, ma che raramente esercitano il conflitto come arma per affermarsi: nel 40% dei casi la loro è stata una autocandidatura ma nel 37% è il sindaco uscente, vero gestore della politica locale, che li contatta.
Non sono un blocco unico. Di giovani amministratori in giro per i comuni italiani ve ne sono almeno tre tipologie, con culture e visioni molto diverse tra loro. C'è l'agente di comunità il volontario civico, amministratore amatoriale e generosamente idealista il cui punto di riferimento unico è il paese, che non aspira a fare carriera fuori dalla comunità locale (il 44,3 % aspira a continuare a fare l'amministratore comunale) e che concepisce la politica come servizio non remunerato. A fianco coesiste il giovane che vede l'esperienza amministrativa come un passaggio all'interno del proprio percorso professionale personale. Una sorta di petit commis territoriale alieno all'idea della politica come carriera ma che vive l'amministrazione e il ruolo pubblico come prolungamento della professione civile.

In una logica di porte girevoli in cui i confini tra privato e pubblico si confondono. Infine emerge una figura di giovane imprenditore politico locale, capace di convertire reputazione civile in chance di carriera politica, per il quale il ruolo pubblico è aspirazione a vivere di politica e, soprattutto al Sud, chance di mobilità sociale. E con quali culture politiche questi tre modelli di giovani élite in crescita affrontano le turbolenze della crisi? Con una costellazione valoriale che mixa comunitarismo localista, radicalismo partecipativo "grillino" e culto delle regole e della superiorità dei saperi tecnici e professionali su quelli politici. È questa la cifra culturale comune, trasversale alle appartenenze ideologiche. Un terreno comune molto più debole invece rispetto al tema dei confini della cittadinanza dove sull'accesso dei nuovi ultimi, i migranti soggetti di una questione sociale ormai post-classista, al welfare e al voto le differenze di schieramento riprendono il loro ruolo.

Con invece la meritocrazia a fare da vera ideologia generazionale (il 64,7% preferisce il merito all'eguaglianza come principio di retribuzione) e il lievitare di una cultura comune tra destra e sinistra sui temi etici e dei beni comuni. Una cultura diversa dagli scontri della politica "adulta": il 65,9% dei giovani di centro-destra e il 67,3% di quelli di centro-sinistra consideravano praticabile in casi particolari l'eutanasia e l'aborto e il 62,3% dei primi considerava la tutela dei beni comuni dagli interessi privati un principio essenziale della democrazia. A partire dal comune come istituzione oggi si difende ciò che è comune. È un segnale che nelle pieghe del paese le energie per ricominciare a pensare il futuro forse ci sono.

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