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Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2012 alle ore 07:00.
L'ultima modifica è del 05 ottobre 2012 alle ore 08:43.

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Sono passati tre anni da quando Fiat cercò invano di acquistare la Opel. Il nodo strategico che aveva spinto Sergio Marchionne a tentare la mossa rimane inalterato sul tavolo, ed è stato anzi aggravato dalla crisi: in Europa c'è un eccesso di capacità produttiva che tiene bassi i prezzi delle auto e in rosso i bilanci dei costruttori. La soluzione immaginata dal manager resta però altrettanto irta di ostacoli, a cominciare dalla necessità di convincere General Motors a cedere l'azienda tedesca quasi gratis.
Se il compito di convincere gli americani può sembrare difficile, ancora di più lo sarebbe la gestione dell'integrazione fra i due gruppi: entrambi navigano in cattive acque in Europa. Il problema più grosso sarebbe politico: quanto costerebbero dal punto di vista sociale gli inevitabili tagli agli organici, quale sarebbe il costo economico e chi lo pagherebbe? Fiat e Opel sono gli unici due gruppi che in Europa hanno chiuso fabbriche nel dopo crisi (Termini Imerese e Anversa); l'azienda tedesca ha di fatto annunciato al più tardi per il 2016 la fine della produzione anche a Bochum, e rimarrebbe con soli due impianti di assemblaggio di vetture in Germania (più altri tre in Gran Bretagna, Polonia e Spagna).

Comunque vada a finire l'operazione (se mai partirà), Sergio Marchionne ha ragione a definire inevitabile il consolidamento del settore in Europa: la sensazione è che la crisi strutturale possa portare a un riassetto altrettanto strutturale. Con le vendite di auto calate di oltre tre milioni in cinque anni e una congiuntura che si prevede stagnante per i prossimi tre non c'è spazio per tutti, e solo la diversa coscienza sociale europea ha finora impedito una soluzione all'americana. Ma il costo diventa sempre più difficile da sostenere per le aziende e anche per i paesi che – se la soluzione europea chiesta da Marchionne rimarrà impraticabile – dovranno farsi carico dei problemi. Il problema non riguarda solo le fabbriche: un mercato a questi livelli (e oltretutto frammentato su decine di Paesi) non è in grado di far sopravvivere una ventina di marchi autoctoni (esclusi quelli di lusso) con le rispettive reti di vendita, più quelli giapponesi e i sempre più aggressivi coreani.

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