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Questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2012 alle ore 08:45.

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Il compromesso raggiunto sull'unione bancaria nel cuore della notte di Bruxelles è l'ennesima dimostrazione del distacco fra i tempi della politica europea e quelli della crisi. Pur di strappare un consenso tedesco a denti stretti, si è lasciata senza risposta la domanda che tutti si pongono: cosa succederà alle banche spagnole nelle prossime settimane?

Eppure il Fondo monetario nei suoi ultimi rapporti ha ampiamente documentato che le banche (e non solo quelle europee) rischiano di rivelarsi l'anello debole della catena che dovrebbe portarci fuori dal tunnel della crisi. I problemi delle banche non sono solo le perdite accumulate e quelle che incombono se la ripresa continuerà ad essere un miraggio che si sposta sempre un po' più in là. Non meno grave è il fatto che la crisi ha messo a nudo una redditività di base inadeguata ad assicurare in futuro accumulazione interna di capitale e dividendi agli azionisti.

Ironia della sorte, i profitti bancari vengono oggi soprattutto dai titoli pubblici, grazie alle generose immissioni di capitale delle banche centrali, ma questo stringe sempre più il vincolo fra sistemi bancari nazionali e debito pubblico, cioè il circolo vizioso che l'Europa a parole vuole spezzare. Non a caso, nell'ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria, il Fondo monetario considera come indice di fragilità dei sistemi bancari il rapporto fra titoli nazionali detenuti dalle banche e il Pil e mette l'Italia, insieme a Spagna e Irlanda, fra i Paesi più esposti.

E un esercizio econometrico dice che gli indici di fragilità finanziaria (quello appena citato e altri sulle condizioni patrimoniali e di liquidità) spiegano ormai un terzo dello spread di ciascun Paese. Il monito del Fondo è chiarissimo: le misure prese vanno nella giusta direzione, ma la marcia deve essere accelerata, perché «quanto più la crisi si protrae, tanto maggiore saranno i costi pubblici della soluzione e tanto più difficile sarà riavvicinare la periferia (Spagna, Italia e gli altri) al centro», cioè rimettere assieme i cocci di un'integrazione finanziaria che si è frantumata. Nonostante questi moniti, di acceleratore al vertice di Bruxelles non si è parlato e quasi ci si è compiaciuti di non aver innestato la marcia indietro.

Eppure l'analisi del Fondo è spietata: se la crisi perdura, il processo di deleveraging delle banche può assumere dimensioni preoccupanti e tanto gravi da riverberare effetti negativi anche in altre aree come l'Europa dell'Est e l'America latina. Nello scenario negativo, la contrazione del totale attivo delle banche può arrivare al 12 per cento, pari a 4,5 trilioni di dollari. I paesi della periferia, e in particolare Spagna e Italia, sono ovviamente i più esposti e rischiano di tornare l'anno prossimo a un rapporto fra prestiti bancari e Pil pari a quello del 2003-2004. Avremo così anche noi, come il Giappone, un "decennio perduto".

Bella soddisfazione. E poiché da noi la decelerazione è stata finora più contenuta, questo significa un rischio di contrazione più forte nei prossimi mesi. Il problema vero è che è ancora irrisolta la questione di fondo: come deve essere la banca dopo la crisi e quale sarà il livello di redditività che possiamo attenderci? E qui il problema non è solo europeo: nonostante le riforme già attuate negli Usa o quelle promesse in Europa, la situazione è ancora molto fluida, tanto che le banche americane, in particolare i giganti globali, continuano a derivare la quota fondamentale dei profitti dal trading, hanno raggiunto un grado di concentrazione sui mercati ancora superiore a prima della crisi e per di più mostrano (Fmi dixit) una preoccupante vulnerabilità dei loro modelli di business.

L'incertezza sul futuro delle banche è tale che si moltiplicano iniziative pubbliche per colmare il gap che le banche attuali sembrano incapaci di colmare. Nel Regno Unito, il cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha fatto violenza al suo credo conservatore e ha proposto una banca pubblica per le piccole e medie imprese. Pochi mesi fa ha stanziato un miliardo di sterline per iniziative miranti ad immettere capitale nelle imprese minori.

E' di questi giorni la notizia che anche la Francia ha creato una Banca pubblica degli investimenti, dotata di una potenza di fuoco di 40 miliardi di euro, più del doppio di quanto la nostra Cassa depositi e prestiti abbia finora potuto mettere a disposizione delle imprese. Non si tratta solo di misure-tampone, anche perché le cifre in gioco sono di tutto rispetto.

Il punto è che se il futuro delle banche prevede un ridimensionamento rispetto alla redditività del passato (anzi, ciò appare come cosa buona e giusta), allora ha senso che in un momento di così grande incertezza come l'attuale, una parte delle funzioni di credito che attiene all'interesse generale sia svolta da istituzioni pubbliche, ovviamente nel presupposto che queste sappiano rendere conto del loro operato. Insomma, le grandi domande sollevate dalla Grande Recessione sono ancora senza risposta: che banca vogliamo per il futuro? E qual è il sistema di regolazione e di vigilanza che vogliamo per l'Europa? Abbiamo bisogno di colmare con attori pubblici i vuoti lasciati da un sistema bancario che naviga fra la Scilla dei problemi di ieri e di oggi e la Cariddi delle regole sul capitale di domani? Fintanto che continueremo a girare intorno a questi interrogativi, la crisi non potrà dirsi risolta e le banche rischieranno sempre di più di essere parte del problema, anziché della soluzione.

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