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Questo articolo è stato pubblicato il 22 ottobre 2012 alle ore 07:55.

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Solo un mese fa nessuno avrebbe previsto che il dibattito televisivo di questa notte tra Barack Obama e Mitt Romney potesse risultare decisivo per la nomina del presidente degli Stati Uniti. Nessuno pensava che un confronto davanti alle telecamere potesse far mutare parere al 12% degli elettori, come è avvenuto nel dibattito d'esordio del 3 ottobre.

C'erano tre ragioni per escludere un così forte impatto: gli elettori incerti erano, si diceva, al massimo il 7%; la campagna era condotta con strumenti sofisticati di comunicazione, molto meno generici della televisione; infine, il confronto di contenuto non si sarebbe deciso nei comizi, ma nel circuito che va dai think tank di Washington ai nuovi media.
Il confronto in tv è invece arrivato come un sasso su uno specchio: ha rivelato la personalità dei due candidati rompendo l'immagine virtuale riflessa da campagne elettorali troppo astute e sofisticate i cui contenuti erano tenuti volutamente vaghi. Nessuno tuttora conosce i dettagli del programma di Romney, ma anche Obama è riluttante a discutere le responsabilità di una presidenza difficile. Entrambi si sono mossi su linee di minima resistenza, cercando solo di mobilitare i propri sostenitori. Infatti fino ai confronti in tv, le intenzioni di voto si basavano sulle fedeltà di parte degli elettori più che sui candidati. Poi, pur con tutti gli inganni intrinseci alle tv, le telecamere hanno svelato la vis degli sfidanti. Dapprima più definita quella di Romney e più appannata quella di Obama, inibito dal primo comandamento di un candidato di colore: mai mostrare aggressività per non spaventare l'elettore bianco. Poi contraddittoria quella di Romney e solida quella di Obama.

Può sembrare paradossale che in una campagna così lunga e martellante i profili dei due candidati volessero rimanere sfumati, ma questo è proprio il punto cruciale: in un sistema elettorale complesso non è il re a essere nudo davanti al popolo, ma viceversa è l'elettore che appare privato di ogni paramento e di ogni segreto. Voltaire non aveva fiducia nella democrazia, perché non aveva fiducia nel popolo, oggi invece il candidato presidenziale si può fidare pienamente del popolo perché ne conosce in anticipo ogni preferenza. Sarà sufficiente adattare se stessi per vincerne la fiducia. Ed è quello che Obama e Romney, hanno fatto sistematicamente. Mese dopo mese Romney ha dato addirittura versioni fittizie e divergenti delle proprie politiche.

La tecnologia ha permesso il ribaltamento dell'utopia democratica del re nudo. Gli strateghi delle campagne presidenziali conoscono quasi tutto degli elettori e confezionano su misura di ognuno di loro il messaggio dei candidati. La quantità di dati che essi scuotono dai rami della foresta di internet su ogni cittadino è tale da rivelare se l'elettore - a cui gli attivisti recapiteranno fino a venti telefonate a domicilio - è credente o no, ambientalista o no, se consuma cibi organici o non se ne cura. Se fa parte di una comunità o vive isolato, se legge quotidiani e quali. Grazie ai nuovi software in grado di incrociare i dati, ogni messaggio può arrivare in 500 varianti diverse a seconda del destinatario. Le campagne assomigliano alle immagini satellitari di google-earth che puntano l'obiettivo su ogni quartiere o, come dicono, su ogni “codice postale”, producendo cinquecento sfumature diverse dello stesso messaggio e dello stesso candidato che così diventa uno, centomila e ovviamente nessuno. Fino a che l'immagine più realistica non diventa paradossalmente quella televisiva.

Naturalmente è un'immagine falsa. Il confronto in tv non ha concesso di conoscere nulla delle proposte di Romney o di Ryan, ma solo la loro fotogenia e la loro personalità meno banale del previsto. Lo stesso Obama nasconde la propria agenda per i prossimi quattro anni. I colleghi del Tax Policy Center e di Brookings che hanno sollevato le contraddizioni nel piano fiscale di Romney non ottengono risposta. In tv Paul Ryan ha risposto che ci sono sei studi che contraddicono quello di Brookings, anche se si trattava solo di blog o di analisi precarie. Nel brodo comunicativo l'altra metà di ogni mezza verità scivola via impunita.
Tuttavia la spiegazione secondo cui Romney ha vinto il primo round, come dice Obama, perché la tv favorisce i racconti generici e non la precisione, è troppo compiacente. Romney ha detto chiaramente quello che vuole ma senza spiegare come, Obama però ha fatto il contrario. Ha spiegato in che modo da presidente ha affrontato le complessità della politica, ma ha perso di vista gli obiettivi, dando ragione a chi gli diceva che il suo slogan “Hope”, speranza, era un sentimento, non una strategia.

La sua immaginifica retorica è affondata nel linguaggio della Beltway, la cittadella di Washington, fin dal primo anno, quando Obama ha rinunciato a politiche radicali, avendo ereditato un'economia disastrata e avendo dovuto accettare troppi compromessi. Il mondo pulito, trasparente e generoso gli è scappato tra le dita. Tuttora Obama sa che l'economia è troppo debole e che il Congresso repubblicano lo braccherà ancora, per poter vantare nuove speranze. Il 3 ottobre, la tv ha mostrato implacabilmente un presidente che aveva perso ispirazione. Il 16 ottobre, nel secondo dibattito, Obama ha reagito ribaltando sui repubblicani la responsabilità dell'impasse politico del paese. Questa notte gli americani si aspettano l'ultimo responso.
cbastasin@brookings.edu

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