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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2012 alle ore 07:50.
Ford chiude la fabbrica belga di Genk, 4.300 posti di lavoro vanno perduti. Posti di lavoro che si aggiungono a una lista già molto lunga per il comparto auto in Europa. Le grandi fabbriche da cui escono le automobili sono infatti quelle che ottengono i titoli più grandi e scatenano le proteste, ma sono solo la punta dell'iceberg: contemporaneamente chiudono fabbriche di motori, di componenti, e all'opposto della catena produttiva anche le concessionarie di auto.
Quando negli ultimi vent'anni tutti i costruttori aprirono stabilimenti in Europa dell'Est, speravano che la crescita della domanda permettesse di tenere occupate anche le vecchie fabbriche all'Ovest. Il calcolo si è rivelato sbagliato.
La crisi è strutturale: i volumi di vendita non torneranno tanto presto (o forse mai) ai livelli precedenti al 2007. Chiudere le fabbriche in eccesso è una soluzione dolorosa dal punto di vista sociale, e nel breve periodo anche costosa, ma permette di rimettere in sesto i conti. Fare utili è indispensabile perché solo chi è in utile può permettersi di investire in nuovi modelli e nuove tecnologie, e solo chi investe può competere nel lungo periodo; l'unica alternativa è gestire il declino. Il problema di adesso, però, e quello di gestire la crisi. Per ora i costruttori europei si muovono in ordine sparso, e la soluzione europea chiesta da Sergio Marchionne non è alle porte. Ma il rischio di distorsioni alla concorrenza cresce, come dimostra l'intervento del Governo francese nel caso Peugeot. Contro Parigi ha già protestato il Land tedesco della Bassa Sassonia, che è azionista della Volkswagen. Senza un intervento della Ue, si rischia una guerra di tutti contro tutti.
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