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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2012 alle ore 08:25.

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Il confronto fra i dati Pmi dell'eurozona diffusi due giorni fa e quelli dell'Ons - l'Istat inglese - svela un quadro al tempo stesso sconcertante e ingannevole, ma comunque utile per convincersi che il ciclo economico britannico abbia toccato il fondo per rimbalzare fuori dalla recessione prima di molti partner dell'Unione.

Il doping iniettato nelle vene del sistema economico dai Giochi Olimpici e l'effetto ottico prodotto dai giorni di festa imprevista in Gran Bretagna nel trimestre precedente, non bastano a giustificare del tutto una performance che va molto oltre ogni previsione. Un panel di economisti s'era allineato all'idea di un più 0,6%, dopo tre trimestri negativi, Ons indica uno sviluppo dell'1%, con il boom dei servizi - l'80% dell'economia del Regno Unito - in crescita dell'1,3 per cento. La droga olimpica potrebbe valere lo 0,3% del dato diffuso ieri, altrettanto e forse di più le festività, ma il resto sembra essere il segnale di una svolta sul tessuto di un'economia meno compromessa di quanto vuole la vulgata corrente. Scenario, a dir la verità, previsto da istituti come Now-Casting che tiene sotto monitoraggio costante l'andamento del Pil di molti Paesi del mondo e che da tempo va denunciando la stima eccessivamente prudente dell'Ons sulla dinamica del Pil britannico.

L'austerità inglese data dai giorni stessi del credit crunch e pur non avendo conosciuto il vigore imposto alle economie dei Paesi euro più esposti alla crisi della moneta unica, è fenomeno che si perpetua da anni, attutito dalla generosa politica monetaria della Banca d'Inghilterra e dalla flessibilità di un mercato del lavoro che traccia una parabola strana sulla seconda recessione londinese dal 2008 ad oggi. Una recessione che crea - o meglio, non distrugge - lavoro è, infatti, arcano che diletta gli economisti, ma è la realtà di questa bizzarra congiuntura del Regno di Elisabetta II. La stima del chief economist dell'Ons Joe Grice secondo il quale dal 2008 si sono persi 4 punti di Pil, 10 di produttività, ma solo l'1% di posti di lavoro, può apparire eccessiva, ma resta l'evidenza di un trend del mercato del lavoro a dir poco eccentrico. Soprattutto perché non solo si sono mantenuti i posti, ma il settore privato ne ha creati di nuovi, assorbendo le conseguenze dei tagli del pubblico imposti dalla stretta. Nei servizi, ma anche nella manifattura.

Se questo è il lato sconcertante del confronto fra quanto accade nell'eurozona e quanto suggeriscono i dati britannici, non va sottostimato quello ingannevole. Londra non è affatto fuori dal guado e la prospettiva resta incerta. Il Cancelliere dello Scacchiere, infatti, continua a mancare i target che si è dato per risanare un deficit che resta il più alto nell'Ue dopo la Grecia. Secondo Gavyn Davies, già chief economist di Goldman Sachs, forse la Gran Bretagna «non è mai ricaduta realmente in recessione» a differenza dell'area euro che, secondo molti economisti, vi è entrata già nel terzo trimestre del 2011. Scenario che disegna due alternative: o Londra ne sta uscendo per prima, oppure ne è sempre rimasta fuori. A David Cameron resta solo l'imbarazzo della scelta.

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