Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2012 alle ore 07:05.

My24

Gli italiani del dopoguerra fecero grandi sacrifici, ma, nel giro di un decennio, colsero il treno dello sviluppo industriale e furono pronti a guardare alle offerte che venivano da altri Paesi. Non avevano paura. Emigrarono. E anche questo, con il tempo, portò benefici in patria. Oggi uscire dai confini della nazione non significa abbandonare tutto, ma fare esperienza, essere pienamente cittadini del mondo, cosmopoliti.

La retorica negativa della fuga dei cervelli dimentica sempre questo aspetto. Studiare e lavorare all'estero è un'esperienza formativa e umana eccezionale, preziosa, un tesoro per qualsiasi generazione. In un mercato del lavoro globalizzato è semplicemente ridicolo pensare di poter soddisfare domanda e offerta all'interno dei propri confini. Specialmente quando l'Europa è in piena recessione. Gli italiani di buona volontà, dotati di talento, spirito d'avventura e coraggio, devono esser sempre con la valigia in mano. Né piagnoni né mammoni, ma viaggiatori che hanno l'Italia nel cuore.
Quelli che restano, in questo straordinario Paese dai mille volti, hanno molte opportunità, ma devono essere disposti a rimettere in discussione dogmi consolidati. Il primo è quello di un'istruzione concepita per sfornare lavori che sono un'astrazione dalla realtà e dal mercato. Travet dell'immateriale in un mondo che invece - per la pressione dei Paesi emergenti ed emersi che stanno costruendo la propria economia - ha bisogno di cose concrete, di beni industriali e di consumo. Bisogna rovesciare il paradigma per cui «sono destinato a fare quello per cui ho studiato». È un'illusione. Se si è completato un corso di studi su una materia in cui non c'è domanda, è inutile insistere. Bisogna rifare tutto. E alimentare la fantasia, materia prima che a noi italiani non è mai mancata, crisi o no. Bisogna avere il coraggio di rimettersi in gioco. Sempre.

Due anni fa ho preso la mia valigia e a 42 anni ho deciso che era venuto il momento di dare una rinfrescata ai miei neuroni. Così sono andato in California, nella Silicon Valley, e ho avuto la fortuna di partecipare a un programma di studio sulle tecnologie del futuro in un'officina del sapere contemporaneo, Singularity University. Perché l'ho fatto? Avevo bisogno di tornare a respirare «aria di libertà» - negli Usa questo è possibile -, incontrare giovani imprenditori, manager, inventori, pensatori, filosofi, spiriti liberi e curiosi, provenienti da tutto il mondo. Quella vissuta nel campus del Nasa Ames Research Center, a Moffett Field, è stata un'esperienza meravigliosa che mi ha confermato alcune cose che pensavo, altre che avevo imparato e avevano bisogno di esser fissate e soprattutto aperto orizzonti inesplorati. Un forum di discussione e analisi dei settori industriali che fanno la differenza tra una nazione avanzata e quelle che inseguono: intelligenza artificiale e robotica, biotecnologia e bioinformatica, nanotecnologia, energia e sistemi ambientali, medicina e neuroscienza, reti e sistemi di calcolo. Nessuna di queste materie ha cittadinanza nel dibattito pubblico italiano, per questo bisogna cambiare le fondamenta del nostro sistema educativo. Dobbiamo innestare sul robusto e meraviglioso ramo degli studi classici, letterari, giuridici ed economici anche la tecnologia. E collegarla strettamente al mondo del lavoro, all'impresa. Esistono delle belle esperienze, ma non bastano, vanno integrate nel sistema del Paese. (...)

Quando qualcuno mi dice, con lo sguardo perduto nel nulla, che una cosa è «impossibile da realizzare», gli racconto una lezione di Singularity. Tema, colonizzazione spaziale. Durante una discussione sulla ricerca e il volo cosmico, appare su uno schermo un asteroide e Peter H. Diamandis, fondatore dell'università con Ray Kurzweil, uno dei guru della Rete, mi chiede: «Mario, secondo te quanto vale quell'asteroide?». Resto muto, sorpreso dal quesito, provo a pensare a cosa potrebbe servire un bozzolone che rotola nello spazio. Mentre provo ad arrampicarmi con una risposta plausibile, appare sullo schermo, in sovraimpressione, un elenco di minerali comuni e altri rarissimi. E così realizzo l'unica risposta che avrei dovuto dare subito, senza pensarci, perché era logico, bastava aprire la mente: una miniera, l'asteroide può essere una miniera del futuro. Quella semplice domanda è stata una lezione che non scorderò mai: non mettere confini alla propria immaginazione. E lavorare per realizzare i propri sogni. Nel mondo - anche in un'Italia che dobbiamo riprendere ad amare e a raccontare - ci sono intelligenze che lavorano per disegnare il futuro, anticipare i tempi e creare un mondo migliore.
Questo brano è tratto dal volume di Mario Sechi
Tutte le volte che ce l'abbiamo fatta

Shopping24

Dai nostri archivi