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Questo articolo è stato pubblicato il 03 novembre 2012 alle ore 09:00.

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Ci risiamo: la Grecia è di nuovo alla ribalta della crisi della zona euro. Era rimasta un po' da parte in questi ultimi tempi, alimentando la speranza che il rischio di contagio da Atene stesse ormai scemando. Speranza non senza fondamento: non solo per via di quanto fatto dal governo Monti, ma anche grazie alla disponibilità dello scudo della Bce, negato invece alla Grecia. Ma non illudiamoci: il potenziale di un esito disordinato e disgregatore della situazione in Grecia persiste appieno. Anzi, è forse nel frattempo aumentato. Se si realizzasse, nessuno dei Paesi attualmente in difficoltà, Italia compresa, ne resterebbe immune, per quanto possa apparire irrazionale e persino iniquo.

La criticità della situazione balza agli occhi da una lettura della legge finanziaria presentata dal governo Samaras il 31 ottobre. Una finanziaria che è anche un documento-denuncia dell'approccio seguito sino ad oggi. Dalle sue pagine emerge con evidenza la spirale perversa generata da questo approccio: un avvitamento rovinoso del Pil, una caduta a picco delle entrate, e un debito fuori controllo, proiettato al 189% del Pil l'anno prossimo (quasi 20 punti percentuali oltre le previsioni precedenti). L'obiettivo di un rapporto debito-Pil del 120%, considerato il livello "gestibile" dal Fmi, appare ormai una distante chimera.

Che fare? Pare ormai tramontata l'idea, accarezzata a volte a Berlino, che poteva convenire liberarsi dell'anello più debole, ed emergere con un'area euro più coesa e forte. Ci si è resi conto che, accanto alla teoria dell'anello debole, vi è quella del domino, considerata più probabile e pericolosa. Spezzato cioè l'anello debole, l'attenzione si sposterebbe su quello dopo, in un fatale gioco di "avanti il prossimo." Da ciò, la conferma che di Grexit, o uscita della Grecia, non si parla, né si elaborano piani per renderla semmai il più indolore e ordinata possibile.

Data la decisione che la Grecia deve restare nell'euro, andrebbe però rivisto l'approccio fino ad oggi fallimentare. Non si può continuare sulla strada che ha condotto ad una recessione senza precedenti e ad un'allarmante inasprimento del clima sociale, che porterebbe prima o poi proprio alla fuoriuscita che si vuole evitare. Vi è ormai un coro crescente che denuncia i limiti all'aggiustamento in una situazione recessiva. Tra le voci più recenti, vi sono la ricerca (seppur criticata) del Fmi sui moltiplicatori fiscali, gli studi della Banca di Francia e del National Institute of Economic and Social Research pubblicati questa settimana, e l'intervento del Premio Nobel per l'economia, Christopher Pissarides, alla British Academy a fine ottobre.

Alla luce di tanti autorevoli interventi e dell'esperienza stessa, vanno riconosciute almeno tre esigenze imprescindibili: l'aggiustamento greco va spalmato su un periodo più lungo (si cominci almeno con due anni in più); l'onere del debito va alleviato non solo, come pare acquisito, con interessi più bassi e scadenze più lunghe, ma anche con una ristrutturazione vera e propria del debito verso i creditori ufficiali; e il financing gap che rimane va colmato con un mix ragionevole di aggiustamento e finanziamento. A questo riguardo, la condizionalità andrebbe circoscritta a quanto è veramente critico da un punto di vista macroeconomico: non può essere (come lo è stata) un albero dei desideri al quale viene appesa ogni misura auspicabile, oltrepassando di gran lunga la capacità attuativa di un Paese dalle istituzioni deboli.

Vi sono, è chiaro, resistenze politiche forti a ciascuno di questi elementi, ed il rischio è che si perseveri diabolicamente nell'errore. È significativo però che il cambiamento di rotta sia in larga misura appoggiato e spinto dal Fmi, con dichiarazioni quasi giornaliere del direttore Christine Lagarde, evidenziando una rottura interna alla troika. Il Fondo Monetario è meno esposto alle preoccupazioni politiche che assillano i leader del Consiglio Europeo. Prevalgono per la maggior parte considerazioni tecniche, affini a quelle che animano un governo quale quello del premier Mario Monti. Il ruolo più utile che potrebbe giocare il governo - per la Grecia, l'Italia e l'Europa stessa - è quello di sostenere nelle riunioni a venire (anche oltre quella chiave del 12 novembre) le esigenze sui tempi, condizioni e finanziamento delineate sopra.

Ma non basta: per affrontare un inverno che rischia essere lungo e ostile, sarebbe bene che l'Italia e la Spagna, entrambe, concludessero quegli accordi (Memorandum of Understanding) necessari per poter fare appello alle operazioni di acquisto dei titoli da parte della Bce. Non per attivarle subito (la litania di "non averne bisogno" sta diventando persino monotona), ma per avere tutto pronto nel cassetto il momento che il bisogno si presentasse, fosse per via di avvenimenti ad Atene od altrove (compreso nella campagna elettorale nostrana). Non si può aspettare di iniziare l'intero, difficile percorso solo quando i tassi schizzassero nuovamente. La raison d'être di strumenti precauzionali quali le Omt è proprio quello di agire in modo preventivo. Si giochi quindi d'anticipo, e senza ulteriori indugi.

alessandro.leipold@lisboncouncil.net

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