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Questo articolo è stato pubblicato il 06 novembre 2012 alle ore 07:43.

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Sull'esito del voto presidenziale l'incertezza è ai massimi dell'ultimo mezzo secolo. Sulle politiche della prossima presidenza, democratica o repubblicana che sia, l'incertezza è altrettanto grande, siamo nella più totale vaghezza. Unica certezza, la montagna del debito sovrano. Un debito che è il loro, noi abbiamo il nostro, ma pesa e peserà anche su di noi, oltre il nostro.

Agli europei conviene tenere gli occhi ben fissi su che cosa davvero per noi importa.
La capacità americana di affrontare un deficit e un debito senza precedenti in due secoli di storia, un debito che è la minaccia più grande alla sicurezza nazionale. Un debito che minaccia il ruolo finanziario degli Stati Uniti. Che assorbe - finché c'è fiducia - quantità sproporzionata di capitali mondiali. Mina il ruolo del dollaro, anche se una moneta di riferimento è lenta a morire. E questo mentre l'Europa ha bisogno di mercati calmi per sistemare debiti sovrani e un euro asimmetrico e incompiuto, e quindi di un'America che sappia riguadagnare il ruolo finanziario di garante di stabilità e ordine (ma dopo il 2007-2008 non è semplice).
Obama promette di essere più giusto, protettore dei deboli. E Romney promette di essere più americano, di risvegliare gli animal spirits, l'eccezionalismo del capitalismo Usa, un motore che a parità di carburante fa più strada.

Siamo nel buonismo con Obama e nel romanticismo con Romney.
I dati fondamentali sono quattro. Primo, l'enormità del debito sovrano, più alto delle stime ufficiali; è al 140% del Pil circa, poiché al total public debt federale pari al 104 occorre aggiungere un 17-18% del debito di Stati ed enti locali, che non viene conteggiato, e una parte almeno degli impegni che Washington si è assunta per garantire la finanza immobiliare pubblica (Fannie e Freddie) .
Secondo, la lunga storia ormai di un debito sovrano in crescita da oltre 25 anni e che portò a uno scontro violento ad esempio già nel 2002 fra Bush figlio e il suo ministro del Tesoro, Paul O'Neill, contrario ai tagli fiscali di Bush perché già allora il bilancio reggeva solo grazie a un miliardo di dollari di nuovo debito al giorno. Oggi siamo a 3,5-3,8 circa, miliardi di nuovo debito, everyday.

Terzo, il fiscal cliff, il baratro, frutto degli automatismi dal gennaio 2013, inseriti dopo il fallimento di lunghe trattative bipartisan del 2011 su come affrontare il risanamento. Si tratta della fine dei tagli fiscali di Bush e di altre riduzioni di Obama per circa 500 miliardi di tasse in più quest'anno, di 100 miliardi di spese in meno, e quindi di una recessione assicurata.
Quarto punto: nessuno ha una vera strategia. Sia Obama che Romney prenderanno tempo, con vari strategemmi, nella speranza di un'intesa bipartisan su quanto e a chi aumentare le tasse, su come e dove tagliare la spesa. Se due ex ministri del Bilancio, Peter Orszag (Obama) e David Stockman (Reagan) hanno ragione, ci si arriverà solo quando il coltello dei mercati sarà alla gola.

È più credibile, sul debito, Obama o Romney? Un giornalista del New York Times, James B. Stewart, ha calcolato il peso di entrambi i piani, vaghissimi, sul proprio stipendio e sulle varie fasce di reddito. Obama aumenta il prelievo anche a una parte della classe media, anche se dice che tasserà i ricchi. Romney non diminuisce le tasse ai ricchi ma in parte li risparmia. Al centro delle sue promesse c'è l'intangibilità della attuale tassazione delle rendite finanziarie.
La congiuntura favorevole, offerta dalla crisi europea, che ha consentito a Washington, tra l'inizio 2010 e oggi quasi tre anni di respiro rendendo più appetibile il suo debito pubblico, non durerà in eterno. «È una tregua fortunata, non un nuovo inizio», diceva nel 2010 uno studio del Council on Foreign relations di New York osservando come la crisi del debito europeo avesse smorzato i primi nervosismi sul debito americano emersi nel 2009.

Sul tema centrale del debito, per l'Europa è meglio Obama o Romney? Data la vaghezza delle strategie, è difficile per ora rispondere. E gli spazi di manovra sono modesti, per entrambi.
Quando nel 1936 Franklin Roosevelt correva per la prima rielezione, chiese al suo speechwriter Samuel Rosenman come rimangiarsi senza danno le vuote promesse, fatte a Pittsburgh nella campagna del 32, di annullare il deficit e ridurre le spese del 25% in quattro anni. «Dica che non è mai stato a Pittsburgh», fu il consiglio. Invece Roosevelt tornò spiegò che ridurre il deficit sarebbe stato tradire l'ansia e umiliare le sofferenze degli americani. Solo che il debito federale era allora del 34% del Pil, e arrivava al 53% con quello locale. Oggi Obama, che prometteva nel febbraio 2009 di dimezzare il deficit, e Romney, che adesso promette di farlo, potrebbero solo dire di non essere mai stati a Pittsburgh.

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