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Questo articolo è stato pubblicato il 14 novembre 2012 alle ore 07:36.

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L'ironia ha voluto che fosse il presidente dell'Associazione delle Fondazioni Bancarie ad officiare la giornata del risparmio. Ironia, perché queste fondazioni sono tutto tranne che un esempio di oculata gestione e di risparmio. In sei anni le fondazioni bancarie hanno ridotto il valore del loro patrimonio del 41%. Si tratta di circa 17 miliardi di perdita, più di un punto del Pil dell'Italia.

Le fondazioni sono formalmente enti di diritto privato (come i loro dirigenti non perdono occasione di rimarcare), ma questo non significa che chi le gestisce abbia il diritto di dilapidare il patrimonio loro affidato. Innanzitutto, in quanto associazioni a scopo benefico le fondazioni sono regolate dal governo e sotto la sua supervisione, come accade anche in America.

Quindi il governo è in ultima istanza responsabile per la loro cattiva gestione. In secondo luogo, perché le fondazioni bancarie sono un patrimonio delle comunità locali che fu privatizzato per far passare la privatizzazione delle casse di risparmio all'inizio degli anni Novanta. Moralmente questi soldi appartengono a tutti i cittadini delle comunità di origine.

Il principale motivo delle nostre critiche non riguarda lo scopo (lodevole) delle fondazioni, né il modo in cui queste erogazioni vengono effettuate (anche se per parecchie fondazioni ci sarebbe molto da ridire e lo abbiamo fatto in modo circostanziato, dati alla mano), ma il modo in cui il loro patrimonio viene gestito. Proprio perché riteniamo le funzioni benefiche da loro svolte molto importanti, vorremmo che le fondazioni fossero nelle condizioni di poter continuare a svolgerle nel futuro. Perché questo avvenga è necessaria un'oculata gestione del patrimonio. La più elementare regola di gestione di qualsiasi portafoglio è quella della diversificazione del rischio.

Nella maggior parte dei casi le fondazioni hanno violato questo principio per mantenere posizioni di potere nelle banche di origine. Così, ad esempio la Compagnia di Sanpaolo ha la metà della propria dotazione in azioni di Banca Intesa, la Fondazione Cariverona il 46% in Unicredit e la Fondazione Banco di Sardegna il 49% investito nel Banco di Sardegna. Questo investimento è stato giustificato con l'esigenza di mantenere le banche legate al territorio. Ma questo obiettivo non rientra tra gli scopi benefici delle fondazioni, a meno che non si consideri come atto di beneficenza quello di regalare ai notabili locali alcuni posti nei consigli delle banche. Cosi come non vi rientra un'altra giustificazione spesso usata, la difesa dell'italianità delle banche; difesa che diventa assurda quando ci si atteggia ad europeisti ma poi si vuole impedire l'accesso in Italia di imprese europee.

Questa commistione tra beneficenza e scopi di potere ha causato gravi danni alle banche, alla collettività, e, più in generale, all'economia italiana. Il caso più eclatante è sicuramente quello della fondazione Montepaschi, che è riuscita contemporaneamente a portare sull'orlo del fallimento la terza banca del paese (salvata con i soldi dei contribuenti) e a deprivare la città di Siena di importanti flussi di beneficienza. A questi danni si aggiunge l'ingessamento della classe dirigenziale in un settore chiave dell'economia; a questo ha contribuito non poco l'autoreferenzialità delle stesse fondazioni. Quando Bazoli è stato costretto da una legge a dimettersi dal consiglio dell'Ubi in quanto banca concorrente, poco dopo sua figlia è entrata nel consiglio della stessa banca. Se qualcuno nelle banche coinvolte si è posto un problema di immagine, non ha ritenuto di esternare le proprie perplessità.

Le fondazioni si presentano spesso come un baluardo contro l'invasione della politica. Ma la realtà è esattamente l'opposto. Per statuto, in molte se non in tutte le fondazioni la maggioranza dei consiglieri possono diventare tali solo se designati dai poteri politici o economici locali. E nessuna persona in buona fede può negare la sottomissione pressoché totale della Fondazione Montepaschi alla politica locale. Nè si può negare che molti dei presidenti delle fondazioni sono politici della prima repubblica, che si sono rifugiati nelle fondazioni e dopo vent'anni sono ancora lì, da Giuseppe Guzzetti di Cariplo a Giuliano Segre della Fondazione di Venezia a Dino De Poli di Cassamarca.

Noi non chiediamo l'abolizione delle fondazioni, ma quattro regole di trasparenza e buona gestione. Primo, che le fondazioni siano costrette a cedere le partecipazioni nelle banche di origine e investirle in un portafoglio diversificato, pena la perdita dei diritti di voto nelle azioni detenute e la perdita dell'esenzione fiscale di cui godono. Se l'obiezione è che solo le fondazioni possono dare stabilità all'azionariato delle banche, si noti che in Italia i fondi comuni hanno 7 volte il patrimonio delle fondazioni.

Secondo, un limite massimo di due mandati a tutti i consiglieri e presidenti delle fondazioni, con un massimo comunque di dieci anni di carica. Terzo, bilanci chiari e trasparenti che rendano pubblici tutti i compensi che i consiglieri delle fondazioni ricevono da tutte le società controllate direttamente ed indirettamente dalle fondazioni. Quarto, il diritto ai cittadini che dovrebbero ricevere la beneficenza di far causa agli amministratori delle fondazioni se sprecano il loro patrimonio o lo gestiscono male. Il governo guidato da un'europeista convinto come Mario Monti non può sottrarrsi a questa urgente riforma, che noi riteniamo di gran lunga piu' importante di quella dell'art 18 dello Statuto dei Lavoratori. Non si può chiedere flessibilita' ai lavoratori e poi non imporla anche ai vertici.

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