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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2012 alle ore 15:47.
L'ultima modifica è del 18 novembre 2012 alle ore 05:47.

Il lavoro come chiave per il reinserimento sociale dei detenuti. Una consapevolezza che fatica a farsi strada in Italia e in Europa. Nessuno pensi ai lavori forzati, con i carcerati che, palla al piede, spaccano pietre: negli Stati Uniti una buona parte delle bandiere a stelle e strisce sono prodotte proprio da detenuti retribuiti regolarmente.

Qui da noi, invece, si arranca. Due mesi fa, il ministro della Giustizia Paola Severino si prendeva l'impegno di far rifinanziare la legge Smuraglia – che prevede incentivi alle aziende che assumono i detenuti – ma il problema è riuscirci prima che il Governo tecnico scada e alla luce della spending review. Eppure, a fronte di un costo immediato, destinare fondi al lavoro dei detenuti, dentro e fuori dai penitenziari, sarebbe un investimento sul futuro. A Bologna, tre aziende "campionesse della meccanica made in Italy" come Marchesini Group, Gd Spa e Ima hanno contribuito a creare un'azienda all'interno del carcere della Dozza, accogliendo l'idea di un docente universitario sostenuta dalla Fondazione Aldini Valeriani. Il vero reinserimento, con abbattimento delle recidive, passa attraverso il lavoro e iniziative come questa.

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