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Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre 2012 alle ore 06:58.
L'ultima modifica è del 20 novembre 2012 alle ore 08:21.

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Il tradizionale incontro della Banca d'Italia con i vertici delle principali banche avviene in un momento molto delicato per l'economia italiana. Il prolungarsi della recessione ha aperto più di una crepa nel sistema che all'inizio della crisi aveva dimostrato di essere fra i più robusti in Europa. Lo stesso Governatore ha recentemente ricordato che da noi le ricapitalizzazioni pubbliche sono state pari allo 0,2% del Pil, nove volte meno di quanto è stato chiesto al contribuente tedesco.
Oggi però la situazione è tale da destare più di un motivo di preoccupazione. Non perché si possano avanzare dubbi sulla solidità delle banche italiane, ovviamente, ma perché nelle attuali condizioni esse tutto riescono a fare, tranne che assicurare un flusso consistente di credito all'economia. E infatti, indagine dopo indagine, i segnali dell' aggravarsi del credit crunch si intensificano.

Non si tratta di insensibilità delle banche alle esigenze dell'economia reale. È l'amara realtà di questa crisi che detta le condizioni o, se si preferisce, che rende impraticabile l'uscita "morbida" dalla crisi che aveva ispirato le autorità monetarie e la politica europea. Quella strategia era basata su due azioni: la generosa immissione di liquidità a tassi eccezionalmente bassi da parte della Bce e la ricapitalizzazione delle banche, anche in condizioni avverse, promossa dal Consiglio europeo e avviata dagli stress test dell'Eba di un anno fa. Implicita era anche l'idea che la redditività delle banche sarebbe aumentata e quindi si sarebbero aperti gli spazi per un'ulteriore ricapitalizzazione via utili non distribuiti.

Questa strategia è riuscita a scongiurare il pericolo più drammatico della prima parte del 2012, cioè ad evitare che le banche fossero trascinate nel gorgo della crisi del debito pubblico. Il patrimonio delle prime sei banche oggi supera del 10 per cento quello alla fine del 2011. Ma non ha migliorato gli altri problemi sul tappeto, a cominciare da quello dell'offerta di credito all'economia.
Il motivo fondamentale è che le banche italiane sono prese fra due fuochi: da un lato, la redditività di base è ai minimi storici, anche a causa del basso livello dei tassi di mercato. Dall'altro, gli accantonamenti per perdite su crediti rimangono su livelli pericolosamente alti. Sempre per le sei principali banche italiane, nei primi tre trimestri questa voce pesa per 10,8 miliardi, pari all'8 per cento del capitale alla fine dell'anno scorso. In altre parole, il deterioramento della qualità del credito continua a muoversi in direzione (ostinata e contraria, direbbe De André) a quella della manovra di ricapitalizzazione.

È la prova più evidente del fatto che la ricetta per l'uscita "morbida" dalla crisi non dà i risultati sperati perché manca un ingrediente fondamentale, cioè la crescita economica, l'unico antidoto contro il peggioramento della qualità del credito. In questo scenario, le conseguenze per l'attività produttiva rischiano di essere molto serie.
Il Fondo monetario internazionale, nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria di ottobre scorso, aveva ammonito che le previsioni sul credit crunch in Europa relative ad un campione di 58 banche, sono notevolmente peggiorate da aprile scorso. Mentre allora nello scenario base si stimava che l'offerta di credito per i paesi periferici avrebbe subito una modesta contrazione di circa due punti percentuali, adesso si arriva a prevedere una caduta del 9 per cento.
Nell'analisi del Fondo, la strada maestra per evitare questo grave pericolo è quella di realizzare senza indugi, anzi di accelerare, le politiche europee già annunciate e non ancora realizzate: prima fra tutte l'unione bancaria. Con buona pace dei "falchi" europei che stanno già avanzando proposte di dilazione e di annacquamento della proposta.

Questo non significa necessariamente che la soluzione del problema sia del tutto fuori dell'Italia. Il Governatore Visco sollecita da tempo le banche ad aumentare l'efficienza operativa, proprio come strada per trovare dall'interno le risorse necessarie per limitare l'impatto del credit crunch. È una strada importante da percorrere: per le prime due banche italiane, il totale dei costi operativi stimato dagli analisti per il 2012 ammonta a oltre 24 miliardi ed è inferiore dell'8 per cento rispetto al 2007. L'azione di razionalizzazione e di adattamento al dopo-crisi obiettivamente è iniziata e ha comportato riduzioni anche dolorose di personale, ma sembra essersi limitata a questa dimensione. Stando infatti agli ultimi dati pubblicati dalla Bce, in Italia il numero di sportelli rimane ancora su livelli elevati, in controtendenza rispetto a quanto avviene negli altri Paesi europei e rispetto a quanto ci si dovrebbe attendere dall'uso sempre più diffuso delle moderne tecnologie.
La riduzione dei costi operativi delle banche non è sufficiente a risolvere i problemi che abbiamo di fronte, ma certo è una condizione necessaria, soprattutto per garantire nel breve termine un'offerta di credito adeguata alle esigenze dell'attività produttiva. In attesa che finalmente l'Europa si muova e con essa la capacità dei governi nazionali di stimolare lo sviluppo. All'incontro di oggi c'è più di un convitato di pietra, ovviamente con Angela Merkel al posto d'onore.

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