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Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre 2012 alle ore 06:55.
L'ultima modifica è del 20 novembre 2012 alle ore 08:09.
Emerge con sempre maggiore evidenza il tema centrale delle prossime elezioni: le linee di fondo del governo Monti saranno o no confermate dalla maggioranza che si formerà nel nuovo Parlamento? È un tema molto delicato che si lega al rapporto fra l'Italia e i suoi partner internazionali e che ruota intorno alla figura fisica del presidente del Consiglio. La frase di Monti in Kuwait, poi corretta, suonava qualcosa come "non posso garantire per il futuro". Ne è nata una polemica pretestuosa, ma comprensibile nel clima elettorale. Del resto, il punto è proprio questo.
Giorgio Napolitano se ne è reso conto e ha affrontato la questione con il tatto necessario. Le sue affermazioni di ieri sono un piccolo capolavoro per quello che dicono, ma soprattutto per quello che lasciano intendere: "sono convinto che si è segnato (con il governo Monti, n.d.r.) un cammino da cui l'Italia non potrà discostarsi. I partiti dicono che vogliono aggiungere qualcosa, non distruggere. Mi pare che questo sia un elemento che possa dare fiducia e tranquillità ai nostri amici per il futuro dell'Italia". Se in queste parole c'è una preoccupazione, è ben dissimulata. Il capo dello Stato ha scelto di puntare sulla virtù dei partiti e non sui loro vizi. Del resto nel suo ruolo istituzionale non potrebbe fare altrimenti: ha il dovere di rassicurare il mondo esterno sul senso di responsabilità dei suoi concittadini; peraltro egli si affretta a far sapere ai "nostri amici" d'oltre confine (la Merkel, Obama, eccetera) che le elezioni contengono sempre qualche elemento di rischio, ma che non esiste una ricetta migliore, visto che "non si può non votare".
In altri termini il problema del "dopo" esiste, ma si pensa - o si vuole credere - che sia gestibile. E se Monti ha avuto un momento in cui le parole hanno forse tradito il suo pensiero più intimo, l'asse con il Quirinale è servito a rimettere le cose in ordine. Tutto a posto, quindi? Non proprio. Per due ragioni. La prima è che i "nostri amici", come li definisce Napolitano, non sono per nulla convinti che la strada sia spianata. La diffidenza verso un governo di partiti si taglia con il coltello. Ed è un po' vero quello che fa intendere fra le righe il presidente; e cioè che qualcuno all'estero gradirebbe, se appena non fosse assurdo, che l'Italia rinviasse le elezioni a data da destinarsi. Ma come è ovvio non si può, fa sapere garbatamente il capo dello Stato.
La seconda ragione riguarda la vera e propria gestione del dopo-voto. Dice ancora Napolitano, parlando della fase successiva alle elezioni: "vedremo e cercheremo la soluzione più idonea per governare stabilmente il paese mettendo a frutto il lavoro del governo Monti". Questo è di sicuro quello che vogliono sentirsi dire le fatidiche cancellerie "amiche", dall'Europa agli Stati Uniti. Il punto è che al Quirinale non ci sarà più Napolitano, il cui mandato scade a maggio. E finora il presidente è stato fermo nel precisare che il governo post-elettorale sarà costituito sotto il controllo del suo successore, a cui spetterà di dare l'incarico al futuro presidente del Consiglio "in pectore". Tuttavia è anche vero che l'ipotesi di votare il 10 marzo cambia un po' il quadro: rappresenta un anticipo di circa un mese rispetto alla data a cui si era pensato in precedenza (il 7 aprile). Quattro settimane in più per evitare che il lavoro di Monti sia disperso da qualche coalizione avventurosa. "Vedremo" afferma Napolitano. E di più per ora non si può dire.
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