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Questo articolo è stato pubblicato il 21 novembre 2012 alle ore 08:26.
L'ultima modifica è del 21 novembre 2012 alle ore 09:05.

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Fu Jun è professore di politica economica e vice rettore esecutivo della School of Government dell'università di Pechino. Il suo curriculum, denso di esperienze che attingono alla tradizione culturale dell'Est ma anche dell'Ovest del mondo, ne ha fatto un punto di riferimento anche della nomenklatura cinese.

Ha accettato di essere intervistato dal Sole 24 Ore a margine del convegno organizzato da Fondazione Italia Cina e Banca d'Italia sulle prospettive di riforma e di apertura del settore finanziario cinese.

Professor Fu Jun, come sta l'economia cinese all'indomani del cambio ai vertici politici della Repubblica popolare cinese?
Non bene, direi. Ma la politica non c'entra con le prospettive di cui stiamo parlando. La Cina soffre molto a causa della crisi che ha colpito prima gli Stati Uniti, ora l'Europa. Quest'ultima, a mio parere, si trova a dover decidere cosa fare del suo futuro.

In che senso, quali sono le prospettive che si profilano per l'Europa?
L'Europa ha tre opportunità che riassumo così: to go back, to stay where it is, to move. La prima prospettiva, quella che porterebbe l'Europa a tornare indietro sui suoi passi ovviamente è l'ipotesi peggiore per tutti, Cina inclusa. L'Europa ha realizzato l'unione monetaria, non quella fiscale né quella politica, ma anche se è una strada lunga, deve continuare in questa direzione.

Torniamo alla Cina e ai suoi problemi.
Il mondo e le situazioni sono profondamente interconnessi, pensare che la Cina debba trainare il mondo non è realistico. Intanto in Cina le cose stanno cambiando, l'export non è più il pilastro di un tempo, ci sono gli investimenti, che sono pilotati dal governo e c'è un mercato interno di consumatori che fa fatica a emergere.

E allora?
Dobbiamo ri-orientare la nostra politica: educazione, welfare, trasparenza negli investimenti. Queste sono le tre priorità.

Ecco dunque che rispunta la questione finanziaria.
Certo, il mercato finanziario cinese è sottosviluppato. Il ruolo delle banche è eccessivo se pensiamo che copre il 62-3% del totale lasciando agli altri operatori, incluso lo stock market, un ruolo minore. Basta guardare a cosa ha fatto la Corea del Sud per cogliere le differenze. La Cina dovrà cambiare marcia anche perché la Borsa cinese è caratterizzata da investimenti a breve, speculativi. Almeno finora.

Bisogna liberare risorse per investimenti privati, dunque. Con il collasso del credito locale e del black market migliaia di imprese sono rimaste travolte. Cosa ci dice dell'esperimento avviato localmente nell'area di Wenzhou?
La liberalizzazione locale voluta da Pechino intanto sta tenendo giù i tassi dei prestiti. Poi, si vedrà. Voglio anche dire che gli operatori qualificati autorizzati nel frattempo sono arrivati alla cifra un tempo impensabile di 199. Di fatto non si può ignorare che le piccole e medie imprese cinesi hanno sofferto di più ma dato anche tanto, l'8% della forza lavoro, una del crescita del 9,9 ma hanno ottenuto soltanto il 20% dei prestiti ottenuti sul mercato legale.

Tornando alla Cina e all'Europa, che genere di investimenti farebbero bene a entrambi, ai Paesi europei attanagliati dalla crisi del debito sovrano e agli operatori cinesi votati al go global? Acquisizioni oppure forme di società miste?
Dipende dalla natura delle aziende e dal settore in cui operano. In quello dei servizi la Cina è indietro, quella manifatturiera, beh...la Cina è stata in qualche modo forzata a diventare il regno della manifattura. Restano le tecnologie sensibili, sulle quali logicamente la formula della joint venture è davvero più complicata.

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