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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2012 alle ore 06:52.
L'ultima modifica è del 22 novembre 2012 alle ore 08:26.

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È davvero strano, e anche un po' surreale, constatare che la Grecia, l'ultima della classe dell'euro, ormai ha davvero fatto tutti i compiti a casa, parola di Eurogruppo, e invece chi si ostina a non fare i propri sono gli altri, i primi della classe, che pure non cessano di impartirle lezioni di buona creanza europea.
Due conclavi ministeriali in otto giorni si sono chiusi a Bruxelles con un nulla di fatto: niente accordo nell'eurozona e tra questa e l'Fmi sullo sbocco degli aiuti che Atene attende da giugno per non finire in default. Niente accordo sul punto di sostenibilità del debito greco fuori controllo, sui due anni in più per centrare il 120% nel 2022 e non nel 2020 e nemmeno sulle modalità per coprire il nuovo buco da 32 miliardi che nasce dalla dilazione della scadenza oltre che dalla lievitazione dei costi dei due programmi in corso.

Altro tentativo lunedì prossimo ma prima, in margine al vertice che si riunirà oggi e domani a Bruxelles, ne discuteranno anche i leader europei. Sarà la volta buona? I mercati sembrano convinti di sì, quindi per ora non danno troppi segnali di nervosismo. Sempre per la serie dei giochi a parti invertite, ieri è stato il premier Antonis Samaras a richiamare l'Europa all'ordine: «La Grecia ha rispettato gli impegni. Ora anche i nostri partner e l'Fmi devono rispettare i loro. Non ci sono difficoltà tecniche che giustifichino negligenze o rinvii. In gioco non c'è solo la Grecia ma la stabilità dell'euro».
Atene sta pagando carissimo un decennio vissuto al di sopra dei propri mezzi. E non solo perché i sacrifici che è chiamata a fare sono pesantissimi. Qualche cifra: pensioni falcidiate per ben 5 volte consecutive, salari tagliati del 35%, oltre 120mila licenziamenti nel settore pubblico da qui al 2014, un quinquiennio di recessione che hanno ridotto la produzione nazionale di un quarto. La stretta draconiana imposta dai partner ha avuto contraccolpi ben peggiori del previsto. Come ha ricordato di recente l'americano Charles Dallara, capo dell'Institute of International Finance (IIF), il Pil reale in due anni è crollato dell'11,7% invece dell'atteso 6,5, la domanda interna del 15% invece del 7, la disoccupazione è schizzata al 25% invece che fermarsi al 15%.

Non sono scostamenti da poco. Ora il rischio è che la cura si riveli peggiore del male da curare, visto che dal 2010, cioè dal primo piano di salvataggio, il debito greco è sempre cresciuto ben oltre le previsioni: nel 2011 doveva fermarsi al 145,1% del Pil e invece ha sfiorato il 171%. Quest'anno sarà del 175,6 invece del 148,6. Nel 2014 viaggerà oltre il 190% quando secondo i piani doveva fermarsi al 144,3%. Ma visto che l'indigestione di austerità si è rivelata controproducente mandando il debito ellenico fuori controllo indipendentemente dai greci, come reagisce l'Europa che pure non è estranea al problema? Litigando con comodo e prendendo il suo tempo per decidere come neutralizzare i costi aggiuntivi di un salvataggio mal calcolato. Già perché, secondo le proiezioni circolate l'altro ieri in via riservata, anche con i due anni in più concessi ad Atene per raggiungere la sostenibilità del debito, l'obiettivo sarebbe comunque fuori portata, visto che nel 2020 il debito greco toccherebbe il 144% e nel 2022 al 133%: ben lontano dunque dal 120% programmato. Per questo l'Fmi non ci sta ad allungare la scadenza e chiede invece un'operazione chiara di ristrutturazione a carico dei creditori europei. Indisponibile ad assumersi oneri finanziari aggiuntivi a 10 mesi dalle elezioni del settembre 2013, piuttosto che ammettere l'evidenza la Germania, insieme ai soliti paesi rigoristi del nord, preferisce optare per la finzione del 120% nel 2022, rifugiandosi nella giungla delle alchimie finanziar-contabili per tirare avanti per il tempo che le serve ad evitare incidenti politici al Bundestag. Quindi ipotizza un buyback da 10 miliardi via garanzie Efsf , senza chiarire su quali titoli greci e in quali portafogli. Insieme punta ad allungarne le scadenze da 15 a 30 anni e a ribassare i tassi di interesse dei prestiti ma non fino a perderci.

Rappezzi e palliativi che certo non eviteranno il terzo piano di salvataggio per la Grecia. L'importante però è non farlo scattare prima dell'autunno prossimo per non turbare la rielezione di Angela Merkel alla cancelleria. Se questa è Europa, se questa è la sua politica verso un paese in ginocchio, è logico che oggi e domani il vertice di Bruxelles prometta di giocare al massacro del proprio bilancio pluriennale. Che pure potrebbe essere un prezioso volano per crescita e competitività di un'Unione che perde terreno sul mercato globale. Ma che importa? Ormai nessun Governo riesce a spingersi oltre gli steccati nazionali da cui si lascia fare prigioniero.

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