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Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2012 alle ore 07:01.
L'ultima modifica è del 23 novembre 2012 alle ore 07:16.

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Un blitz alla Camera rimette in discussione la traduzione in francese della Tobin tax, che sembrava l'approdo finale dell'imposta sulle transazioni di Borsa. Con il sì bipartisan di 433 deputati, sei contrari e otto astenuti è passato l'ordine del giorno, presentato da Francesco Boccia (Pd), che intende vincolare l'esecutivo a «considerare un ampliamento della base imponibile che includa tutti gli strumenti derivati e una conseguente riduzione delle aliquote tenendo in considerazione anche gli operatori esteri e i trader che effettuano un gran numero di scambi giornalieri, nonché i trader online». Sulla proposta il Governo aveva espresso parere negativo.

Il provvedimento che introduce la Tobin tax, all'interno della Legge di stabilità, passerà ora al Senato nella formulazione originaria che prevede un'aliquota dello 0,05% sulle negoziazioni di azioni, strumenti finanziari partecipativi e derivati (escluse invece le negoziazioni che riguardano titoli di Stato e obbligazioni societarie). La palla passa ora a Palazzo Madama, dove la partita resta aperta.

Fino a ieri sembrava scontato che il Governo avrebbe presentato un emendamento al Senato per modificare l'imposta secondo il modello adottato in Francia, dove si paga non su ogni singola transazione ma sul saldo di fine giornata, esentando però le opzioni negoziate dall'estero e market maker. Fatta la legge, trovato l'inganno. A un paio di mesi dall'introduzione il gettito è stato modesto, anche perchè il mercato ha trovato subito il modo di aggirare l'ostacolo facendo ricorso ai cosiddetti "contract for difference" che, utilizzando le opzioni passando dalle filiali estere delle banche francesi (tipicamente Londra) e interfacciandosi con un market maker, permettono di ottenere il medesimo effetto di una compravendita azionaria, senza pagare dazio.

Visto che la Tobin tax sa da fare, in Italia comunque il modello transalpino era sembrato il minore dei mali, anche perchè avrebbe permesso di salvare di fatto i trader on line, che chiudono le posizioni in giornata a saldo zero, e che sono i principali clienti di Borsa italiana (rappresentano dal 30% al 50% degli scambi in controvalore e il 70%-80% dei contratti negoziati), ma anche di salvaguardare le operazioni sulle quali sono più attive le grandi banche.

Non a caso tra Borsa e Abi si era trovato un terreno comune per suggerire modifiche in questo senso al provvedimento. Secondo indiscrezioni di mercato, a essere penalizzati sarebbero stati però gli investitori di lungo termine, istituzionali e risparmiatori, del mercato azionario. Perchè proprio sulle negoziazioni cash di Borsa, per compensare gli sgravi di fatto concessi altrove, a quanto riferiscono le stesse fonti, sarebbe stata inasprita l'aliquota portandola dallo 0,05% – interpretata come imposta da suddividere tra le due controparti, in vendita e in acquisto – allo 0,10% per ciascuno dei due lati della transazione. L'effetto della Tobin tax, anche in versione francese, sarebbe stato comunque quello di rendere meno significativo il mercato azionario italiano, prosciugandone la liquidità e rendendolo meno "direzionale" e più esposto alla speculazione spicciola.

La proposta di Boccia non è compiuta, perchè dovrà ancora tradursi in un testo articolato, ma l'intento espresso è quello di «preservare la capacità della Borsa di intercettare risparmi e grandi capitali per lo sviluppo delle imprese». Un ruolo che negli ultimi anni, col listino che si è accorciato anzichè allungarsi, si era già un po' perso.

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