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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2012 alle ore 08:40.
L'ultima modifica è del 24 novembre 2012 alle ore 09:10.
Bisogna riconoscerlo: qualunque sia domani sera il risultato delle primarie, un primo vincitore c'è già ed è il Partito Democratico. Nell'ora più drammatica della politica, mentre il discredito sembra inarrestabile e Beppe Grillo galoppa, il Pd ha saputo giocare una carta non esente certo da rischi. Al gruppo dirigente, ma in particolare a Bersani, il vero decisore, non è mancato il coraggio e oggi l'esito lo vedono anche degli avversari del centrosinistra.
Giorni fa il dibattito su Sky, ieri sera al Tg1, in mezzo altre trasmissioni: mentre il Pdl si dilania in forme devastanti, con il segretario Alfano costretto a minacciare il ritiro per affermare una sorta di questione morale, il Pd dà l'idea di confrontarsi con qualche serietà su temi autentici. Matteo Renzi - non ci sono dubbi al riguardo - si è affermato come il volto nuovo della politica. Non solo un volto, per la verità: anche chi non lo ama o ne diffida o lo trova presuntuoso, deve riconoscere nel giovanotto un temperamento non comune, al di là di una certa vaghezza nelle proposte.
Anche i tre che hanno fatto da corona a Bersani e gli hanno permesso di stagliarsi al centro della scena, hanno svolto la loro parte con efficacia: da Tabacci sulla destra, testimone di un'alleanza di centrosinistra nel senso più classico, a Vendola sulla sinistra, portatore invece di istanze anti-mercato che hanno suscitato, e non poteva essere altrimenti, numerosi interrogativi. Fino a Laura Puppato, "voce" dell'elettorato femminile. Bersani si è stagliato su questo mini-universo simbolico e lo ha fatto ricorrendo all'arma del buonsenso. Si è visto lo sforzo di parlare il linguaggio del popolo, di descrivere il profilo di un leader autorevole, ma anche un uomo normale in un paese normale. Non sempre l'obiettivo è stato centrato, ma nel complesso, come si è detto, il Pd ha realizzato una buona operazione d'immagine che lascerà il segno.
Ora però cominciano i problemi. Se dovesse vincere Renzi, è facile immaginare il movimento tellurico che ne seguirebbe. Ma anche nell'ipotesi di gran lunga più plausibile (la vittoria di Bersani), la domanda è: sarà possibile rimettere insieme le due o tre facce del Pd come sono emerse in queste settimane? Alle volte il segretario dà l'impressione di voler riprendere il cammino come se nulla fosse accaduto. Una specie di «heri dicebamus» in cui si avverte l'eco della posizione di Rosy Bindi: Renzi è solo il «figlio di Berlusconi», uno con amici pericolosi che si occupano di finanza internazionale.
Se fosse questa la via scelta, sarebbe un errore. Renzi può non piacere, ma è portatore di idee con cui la sinistra dovrà prendere dimestichezza. Sono idee liberali in senso generale ma non generico, forse ancora incompiute, ma non liquidabili con un'alzata di spalle. Il sondaggio di D'Alimonte ha dimostrato che Renzi sarebbe in grado di raggiungere, se fosse candidato a Palazzo Chigi, un numero di elettori molto ampio ed estraneo ai riti e alle tradizioni del Pd.
Bersani non appare in grado di compiere la stessa operazione. Si potrà obiettare che questo era già noto, ma che il segretario ha altre qualità, di solidità ed esperienza. Tuttavia la contaminazione fra i due mondi è indispensabile. Prima che sia troppo tardi e a governare l'Italia sia un'altra alleanza litigiosa e «retrò». Gli italiani l'hanno già sperimentata.
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