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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2012 alle ore 08:43.
L'ultima modifica è del 24 novembre 2012 alle ore 09:09.

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Le primarie si stanno avviando ad essere, anche in Italia, il metodo di selezione dei candidati. Alcuni le hanno definite un evento mediatico, e lo sono: ma sono molto di più. Sono l'unico modo conosciuto per sottrarre il potere decisionale alle conventicole dei partiti. La democrazia - diceva Churchill - è la peggior forma di governo possibile, eccezion fatta per tutte le altre sperimentate finora.

Anche in un paese con grande tradizione democratica, come gli Stati Uniti, le primarie sono lungi dall'essere un sistema perfetto. La telegenicità fa premio sulla sostanza e la capacità di raccogliere fondi conta più dell'integrità. Eppure le primarie svolgono tre funzioni fondamentali in una democrazia. Innanzitutto sottopongono i candidati ad un test che fa emergere le loro qualità (o mancanza di) e il loro carattere. Il Governatore del Texas Richard Perry sembrava un candidato credibile alla nomination Repubblicana, fino a quando non si è dimostrato incapace di sostenere un dibattito in televisione. Nel 2004 il governatore del Maine Howard Dean era dato per vincente tra i Democratici, finché non esplose in una scena di rabbia di fronte ai teleschermi. In Italia le primarie sono ancora troppo brevi ed edulcorate per svolgere appieno questo ruolo, ma è meglio che niente.

Umberto Ambrosoli è qualcosa di più di un figlio di un eroe? Le primarie ci aiuteranno a capirlo. Oltre a selezionare i candidati, le primarie conferiscono legittimità al vincitore, permettendogli un'agilità decisionale sconosciuta ai partiti della Prima Repubblica, divisi da lotte intestine. La reazione a questi partiti ha generato, nella Seconda Repubblica, l'ossessione per il leader. Ma da Berlusconi a Bossi si è trattato di leader-padroni, difficili da sostituire. L'essenza della democrazia, invece, è il ricambio non traumatico dei leader. Le primarie permettono proprio questo.

Ma il vantaggio maggiore delle primarie è che permettono alla gente di influenzare le scelte. Tutte le organizzazioni tendono a sclerotizzarsi, tanto più quanto più sono isolate dalla competizione. Se è pur vero che i partiti competono alle elezioni, questa competizione è limitata dalla frammentazione ideologica e dalle barriere all'entrata. Se Berlusconi ha ancora così tanto potere, è perché è difficile formare un partito alternativo nel Centro Destra. I leader (non eletti) del Pdl godono quindi di un potere spropositato. Le primarie risolvono questo problema rendendo contendibile la leadership. Senza le primarie non sarebbe mai emerso un Obama, un Pisapia, un Renzi o un De Magistris.

Viva le primarie? Sì, ma con regole appropriate. Un problema della primarie sono i soldi. Tanto più serrata diventa la competizione, tanto più i soldi diventano fondamentali. Senza limiti di spesa, a vincere sono i candidati più ricchi o i meglio finanziati, non necessariamente quelli più capaci. D'altra parte con limiti di spesa troppo esigui a vincere sono i soliti noti. Obama vinse contro la ben più conosciuta Hillary Clinton anche perché poté spendere per farsi conoscere. Ci vuole una giusta via di mezzo. In secondo luogo, affinché le primarie non siano un incoronamento mediatico del capo partito, tutti i candidati dovrebbero partire da condizioni simili.

Se un contendente (come è per Bersani o sarebbe per Alfano) rimane segretario continuando a disporre della macchina organizzativa del partito, la contesa cessa di essere ad armi pari. Questa asimmetria diventa ancora più pesante in Italia, dove i partiti godono del finanziamento pubblico, cui il segretario di partito ha accesso. Infine, le regole su chi può votare alle primarie devono essere stabili nel tempo, e non cambiare a seconda di chi si vuole far vincere. L'apertura a tutti delle primarie Pd in Lombardia, per esempio, favorisce Ambrosoli. I vincoli imposti a livello nazionale (un impegno a sostenere il vincitore chiunque esso sia) favoriscono Bersani.

Negli Usa in alcuni stati le primarie sono limitate a chi si è registrato come elettore democratico o repubblicano, in altri sono aperte a tutti. In nessuno stato, però, le regole cambiano a seconda del candidato. E in nessuno stato si chiede un impegno formale a votare il candidato vincente. Una regola che, ad essere rigorosi, in Italia escluderebbe dal voto perfino D'Alema, che ha dichiarato che farebbe guerra a Renzi nel caso in cui il sindaco di Firenze vincesse le primarie. Nessun partito si sognerebbe mai di imporre queste restrizioni perché comprometterebbero le probabilità di successo.

Nei sistemi maggioritari le elezioni si vincono conquistando i voti degli indipendenti al centro. Escludere costoro dalle primarie significa condannare il partito alla sconfitta. Se a vincere le primarie e perdere le elezioni Bersani preferisce perdere le primarie e vincere le elezioni dovrebbe rimuovere questi limiti al ballottaggio, aprendolo a tutti coloro che si impegnano a non partecipare alle primarie del Centrodestra. In questo modo farebbe un favore non solo al Partito Democratico, ma al Paese.

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