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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2012 alle ore 08:28.
L'ultima modifica è del 01 dicembre 2012 alle ore 10:24.

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Scienziati e ricercatori anelano ad attraversare le colonne d'Ercole della conoscenza. I loro sono impegni a lungo termine per dare risposte a quesiti scientifici che sembrano irrisolvibili. Eppure, come sosteneva il fondatore della Sony Akio Morita, «i progressi nella conoscenza del business non sono meno rilevanti dei passi in avanti compiuti nei campi scientifici e tecnologici». Insomma, ricerca e innovazione sono due facce della stessa medaglia (com'è anche emerso dalla Giornata della Ricerca & Innovazione di Confindustria). Sempre che si abbia di mira la produttività della prima, il cui metro di misura non sono i brevetti ottenuti bensì la conquista di nuovi clienti e il numero dei vecchi clienti fidelizzati accrescendo nel contempo la profittabilità aziendale. Avendo battuto questo sentiero della produttività, Apple, con una significativa minore intensità di R&S rispetto ai suoi rivali Microsoft e Sony, ha generato profitti con iPod, i Pad, iTunes, iBook e iPhone. In altre parole, più spesa in R&S non porta automaticamente a una migliore salute aziendale.

È vero che, in risposta al boom di investimenti nella R&S in corso tanto in Cina quanto in India, ci sono buone ragioni, in Europa e ancora di più in Italia, per sollecitare sia la mano pubblica sia i privati a destinare più fondi alla ricerca. Certo, l'attuale 1% della spesa italiana in R&S sul Pil è ben lontano dal traguardo europeo del 3%. Da 4,7 ricercatori per mille occupati dovremmo avvicinarci almeno ai 9 circa della Francia e della Germania. Guardiamo, però anche ai risultati che è lecito attendersi da questi sviluppi. Una risposta la forniscono gli Stati Uniti. L'America non si trova in cima alle classifiche di spesa in R&S e per numero relativo di ricercatori. La prima è intorno al 2,7% (in ordine crescente, Giappone, Finlandia, Israele e Svezia hanno fatto meglio, attestandosi tra il 3 e il 3,8%) e per intensità di ricercatori occupa una posizione intermedia. Eppure è questo il Paese che ha mostrato le migliori prestazioni per numero di invenzioni e valore economico delle conseguenti innovazioni prodotte al suo interno.

Ecco perché non vanno trascurate le azioni complementari da intraprendere volendo far correre insieme ricerca e innovazione. Per l'Italia tante sono le azioni attese, annunciate, abortite o non portate mai appieno a compimento. Ci sono le azioni che rendono più spedito il flusso di conoscenze, informazioni e progetti tra l'università e l'industria. Altre che si traducono in provvedimenti legislativi per facilitare le istituzioni pubbliche di ricerca a detenere e commercializzare proprietà intellettuale. E, infine, interventi che incidono sulla qualità delle partnership tra il pubblico e il privato allo scopo di adeguare l'offerta di ricerca pubblica ai bisogni e alle domande del paese (come accade nel Regno Unito).
Se ricerca e innovazione sono in sintonia ne guadagna lo sviluppo dell'imprenditorialità. Una danza virtuosa, anche perché potrebbe dare ossigeno ai bilanci sempre in affanno degli enti di ricerca. Se i decisori politici riconoscessero in modo più incisivo che il potere della conoscenza in azione è una guida fondamentale del cambiamento strategico, i governi potrebbero fare di più per minimizzare le sovvenzioni come mezzo per promuovere ricerca e innovazione.

Un'ultima annotazione. Mentre l'innovazione è una partita giocata a tutto campo nell'arena mondiale, l'Italia non è tra i protagonisti nei circuiti mondiali delle idee e delle persone. Nel commercio internazionale delle idee il Paese occupa una posizione di bassa classifica. E siamo marginali nel grande circuito internazionale di studenti e giovani laureati. A differenza dei loro coetanei indiani, cinesi, olandesi, scandinavi, nordamericani e di tanti altri Paesi ancora, pochi sono i nostri giovani che, a causa di barriere linguistiche e atteggiamenti culturali, lasciano temporaneamente la loro città per studiare e contemporaneamente lavorare nelle aree a più alto tasso di ricerca e innovazione. Più italiani, nomadi della conoscenza anziché emigrati, vorremmo vedere circolare tra le prime 20 città nel mondo dove si tessono fitte reti che collegano istruzione, ricerca, capitali di rischio, società multinazionali, progetti imprenditoriali e imprese neonate. Incoraggiando la mobilità internazionale di studenti, giovani laureati e ricercatori, l'Italia getterebbe un ponte tra la ricerca e l'innovazione per alzare la produttività della prima e l'imprenditorialità della seconda.

piero.formica@gmail.com

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