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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2012 alle ore 08:13.
L'ultima modifica è del 04 dicembre 2012 alle ore 08:14.

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Le conseguenze delle primarie non riguardano solo il Pd e il centrosinistra. Investono quasi allo stesso modo anche il centrodestra, per ragioni intuibili. Ne mettono in luce, come in uno specchio, l'impotenza e il quotidiano corto circuito.

Il che determina una minaccia piuttosto seria agli assetti democratici, visto che il sistema ha sempre vissuto in questi anni su di un certo equilibrio destra-sinistra.
Il vituperato "Porcellum" aveva consolidato, in forme anche artificiose e paradossali, questo dualismo. E ora quasi all'improvviso, senza che nemmeno sia stata modificata la legge elettorale, ecco che la gamba di centrodestra collassa, mentre quella di sinistra trova la via per rinnovare bene o male la propria immagine e presentarsi agli elettori con maggiore credibilità. Si è creata un'asimmetria pericolosa, proprio nel momento in cui il vuoto viene colmato da un soggetto imprevedibile come il movimento anti-sistema di Grillo.
Sotto il profilo della logica, il successo delle primarie a sinistra dovrebbe spingere il partito che fu berlusconiano a liberarsi in fretta del suo ingombrante fondatore, precipitandosi a imitare il percorso compiuto dal Pd. Anche a costo di rischiare un mezzo fallimento, perché è molto difficile che il Pdl riesca a portare alle urne, senza una specifica organizzazione, tre milioni di elettori o anche solo la metà. In ogni caso l'operazione non era e non è possibile in quanto Berlusconi, come è noto, occupa la scena e si comporta per quello che in effetti è, ossia il padrone assoluto del partito.

Adesso ha addirittura trovato una tesi politica a supporto del suo comportamento ed è che l'affermazione di Bersani contro il "liberale" Renzi spingerebbe a sinistra il Pd, consegnando al centrodestra un nuovo spazio elettorale. È la riedizione, appena aggiornata ai nuovi tempi, del vecchio modulo anti-comunista, utile forse a riallacciare i rapporti con la Lega (dove peraltro c'è Maroni e non più Bossi). Tuttavia la tesi non tiene conto della realtà, dal momento che non esiste più uno spazio che Berlusconi possa gestire in prima persona o attraverso un suo fiduciario. O meglio, uno spazio forse c'è, ma è del tutto residuale.
Se oggi l'Italia moderata ha un punto di riferimento, questo può essere identificato solo in Mario Monti, intorno a una linea di strenuo europeismo. E sembra incongrua l'idea di rimettere insieme i tasselli scompaginati della destra con la regìa dello stesso Berlusconi, diciotto anni dopo la fatidica «discesa in campo». La ricucitura dell'area moderata può avvenire intorno all'attuale presidente del Consiglio, come vogliono, ad esempio, Casini e Montezemolo. Ma la condizione è sempre la stessa: che l'ex premier si ritiri senza ambiguità. C'è una seconda ipotesi ed è che si verifichi nel Pdl una scissione tale da lasciare a Berlusconi la responsabilità di una posizione oltranzista e in sostanza anti-europea.

Vedremo. Al momento Bersani e il Pd godono di un evidente vantaggio mediatico e tattico. Resta da capire se davvero il segretario vincitore avrà voglia di coinvolgere Renzi nel rinnovamento del partito, al di là delle belle parole di circostanza. Farlo sarebbe saggio, ma il collasso della destra e l'ombra di Berlusconi che si staglia sullo sfondo rischiano di alimentare le posizioni conservatrici.
È questo il vero pericolo dell'asimmetria che si è creata. Il vuoto del centrodestra è in sé destabilizzante, specie se produce un riflesso difensivo per cui si torna ai vecchi schemi. Da un lato, uniti contro i "comunisti"; dall'altro, fronte popolare contro il berlusconismo di ritorno. Sarebbe il modo peggiore per tradire lo spirito delle primarie e soprattutto per aiutare Beppe Grillo nella sua campagna elettorale.

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