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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2012 alle ore 08:09.

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«Ogni volta che i governi dell'Europa continentale commettono errori gli effetti, positivi, si avvertono qui. Lo abbiamo visto a metà anni Novanta quando in Svezia fu introdotta una tassa sulle transazioni finanziarie che ebbe l'effetto di portare nella City il 75% del mercato corporate bond e il 50% di quello azionario di Stoccolma». Xavier Rolet amministratore delegato di London stock exchange, ex banchiere di Lehman, tira un sospiro e aggiunge. «È un fenomeno che va molto oltre la Tobin Tax, è, in realtà, la storia degli ultimi trent'anni riaffermata anche nella congiuntura più recente. La sfiducia fra gli investitori innescata dalla crisi dell'euro ha prodotto una fortissima uscita di capitali, molti si sono diretti in Estremo Oriente, ma moltissimi si sono fermati nel Regno Unito. E questo è avvenuto perchè Londra continua ad essere percepita come paradiso protetto, grazie a regole certe e al rispetto puntuale della rule of law. In questo senso, e solo in questo senso, la Gran Bretagna ha probabilmente beneficiato della crisi».

Ha certamente beneficiato dalla crisi se oggi la sola capitale rappresenta ancora il 20% dell'economia nazionale; se oggi l'immobiliare nel cuore di Londra prosegue a crescere sotto la spinta di acquirenti cinesi e russi, ma anche italiani e greci; se oggi l'occupazione della greater London si misura e si dibatte senza mai dover scomodare il prefisso "dis". A pieno regime, come prima, anzi molto più di prima.
Se il motore della Città-Stato si dovesse inceppare gli indicatori del benessere nazionale andrebbero a picco. È questa la condizione che David Cameron vuole evitare alzando le barriere attorno alla City, paradigma dell'opulenza londinese, magnete planetario che genera numeri da record. È il primo centro finanziario mondiale (Gfci, marzo 2012); è il maggior esportatore di servizi finanziari, con numeri che sono un multiplo di Svizzera, Lussemburgo e Usa; ha il secondo settore bancario per asset ed è la maggior piazza per il cross border banking; il 38% di tutto il mercato dei cambi mondiale passa sugli schermi di istituzioni britanniche; ha il secondo posto nell' hedge funds (per numero di manager) e nel private equity mentre torna a schiantare tutti sui derivati con il 46% del trading over the counter.

Un boom che ha preso una spallata del 17%, secondo Capital Economics puntuale nel fissare le conseguenze della crisi, dal 2008 ad oggi, sull'output dei servizi finanziari britannici. Quelli localizzati nella City sono stati molto meno colpiti di quelli sparsi sul territorio, se è vero che le tre maggiori banche hanno avviato un piano di trasferimenti del personale per rilanciare le sedi perifieriche alleggerite dai tagli.
Che il Miglio Quadrato londinese sia il nervo scoperto della politica inglese verso l'Unione è quindi inevitabile: una "mossa sbagliata" e le conseguenze finirebbero per riverberarsi ovunque rompendo una volta di più un meccanismo che fino al 2007 pareva quasi perfetto. Interrompendo, oltre tutto, quell'adagio che Xavier Rolet tracciava raccontando di una City pronta a incassare il dividendo degli errori degli altri.

E se la possibile "mossa sbagliata" ha la forma di una banking union per l'eurozona con incerte ricadute oltre la Manica la reazione è immediata, come si è visto in questi mesi. «È stata una risposta un po' emotiva - precisa Philip Whytes economista del think tank Centre for European reform - nel senso che i timori politici sono apparsi dominanti sulle considerazioni tecniche». Se è vero che Londra ha già conquistato sul capitolo della vigilanza clausole di salvaguardia che la proteggono dall'essere messa in sistematica minoranza in seno all'authority bancaria paneuropea (Eba), è anche vero che questo non basta per fugare il sospetto che rapaci mani franco-tedesche vogliano calare sulla City.
Gli inglesi sono attentissimi a denunciare i segnali che confermano tanti timori. Il più evidente li ha già posti in rotta di collisione con la Bce. Motivo della contesa la volontà dell'istituto centrale di portare fuori dal Regno le operazioni di clearing su prodotti finanziari denominati in euro.

Uno sviluppo se non mortale estremamente doloroso per Lch, una delle maggiori maison di clearing che opera anche, e con quote enormi, su prodotti in euro. Il caso è davanti alla Corte di Giustizia e se Londra, in ultima istanza, dovesse perdere il ricorso le transazioni potrebbero migrare alla volta di Parigi o Francoforte. Le schermaglie stanno salendo di intensità con la Financial service authority (la Consob inglese) che ha unilateralmente e senza consultare la Bce domandato a Lch di ridurre l'esposizione sul debito spagnolo. Una decisione che ha avuto un impatto diretto sul rifinanziamento delle banche di Madrid aumentando il senso di frustrazione delle istituzioni europee dinanzi alle interferenze britanniche.

La replica, indiretta, è giunta nei giorni scorsi dal governatore della Banca francese, Christian Noyer, secondo il quale «non c'è logica nel fatto che la City continui ad essere un centro finanziario off shore per prodotti denominati in euro. Parte del business potrà continuare a rimanere, ma la stragrande maggioranza dovrebbe essere posta sotto il controllo dell'eurozona». La polemica che ne è seguita s'è mossa dalle bordate in direzione di Parigi del sindaco di Londra, Boris Johnson, che ha denunciato «l'attacco al gioiello» del Regno, al laconico commento di un diplomatico inglese soddisfatto di precisare che «ora tutti sanno che non è solo una paranoia britannica». Ovvero che il "tentato furto" è una realtà strisciante.

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