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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2012 alle ore 07:07.

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Nel documento "Appunti di viaggio", a un anno dal suo insediamento, il governo Monti ha affermato che senza l'austerità «non ci sarebbe più l'Eurozona» e rivendica importanti risultati di risanamento. Ma sull'effettività di questi risultati e sull'efficacia delle politiche di austerità si registra crescente scetticismo. Su queste colonne, La Malfa e Gawronski hanno sottolineato gli errori frequenti nello stimare gli effetti recessivi dell'austerità. E in effetti la flessione del Pil nel 2012 si sta rivelando sei volte maggiore di quella prevista un anno fa dal governo (-2,4% contro la previsione di -0,4%), con errori conseguenti nella stima del rapporto debito/Pil. Ma il nostro governo è in buona compagnia. Il Fmi ha ammesso una sistematica sottovalutazione degli effetti recessivi delle politiche fiscali restrittive ed è dal 2009 che la Commissione Europea sovrastima le performance greche di oltre sei punti percentuali all'anno.

Questi errori previsionali non sono casuali, ma conseguenza dei modelli teorici posti a base delle previsioni e dei loro assunti sul funzionamento dell'economia e delle relazioni tra le grandezze economiche. Per comprendere il punto, occorre ricordare che in Europa le previsioni sono state sempre più spesso affidate ai cosiddetti modelli stocastici di equilibrio economico generale, che si iscrivono nella tradizione liberoscambista di studiosi come John Taylor. Ebbene, questi modelli sono giunti sino a negare del tutto l'effetto recessivo dei tagli della spesa pubblica. In breve, la tesi formalizzata nei modelli è che la riduzione della spesa pubblica indurrebbe nei cittadini e nelle imprese una forte aspettativa positiva di contrazione dei tassi d'interesse e riduzione della pressione fiscale, tale da spingerli ad aumentare la spesa per beni di consumo e gli investimenti produttivi.

Ed è questa effervescenza del settore privato, conseguente al passo indietro del pubblico, che determinerebbe l'incremento dei livelli di attività dell'economia stimata dai modelli stessi. Si capisce così perché, secondo la classe di modelli più in voga in Europa, non solo l'austerità e la crescita economica possono andare di pari passo, ma anzi l'una può costituire la premessa logica per l'altra. Mentre invece una politica espansiva viene considerata un ostacolo alla crescita, visto l'effetto di "spiazzamento" che essa dovrebbe comportare sulla spesa privata. Tuttavia, l'esperienza europea e italiana di questi anni indica una sequenza causale diversa, che smentisce quei modelli.

Abbiamo assistito a clamorosi errori previsionali e a troppe strette dei bilanci pubblici alle quali hanno fatto seguito crolli dei consumi e degli investimenti (nel 2012 in Italia il calo dei consumi dovrebbe superare il 3% e quello degli investimenti il 7%). Risulta ormai chiaro che il nesso tra una variazione della politica fiscale e il Pil - il cosiddetto moltiplicatore della politica fiscale - non è né negativo (caso in cui la riduzione della spesa pubblica genera crescita) né di piccola dimensione (caso in cui la riduzione della spesa pubblica frena solo un po' l'economia). Al contrario, la relazione tra spesa pubblica e Pil ha valori positivi e rilevanti, come ormai ha riconosciuto anche il Fmi. Il che significa che le politiche di austerità riducono significativamente il Pil. E ciò, oltre a gravi effetti sul tessuto sociale, rischia di non consentire di cogliere il risanamento. Il caso greco insegna.

Per tutte queste ragioni, aveva visto giusto quella parte della accademia italiana e internazionale nel sottoscrivere il documento contro le politiche di austerità pubblicato dal "Sole 24 Ore" nel giugno 2010. In quel documento, a base del quale vi era un impianto teorico keynesiano e non certo quello di Taylor, venivano correttamente descritti gli effetti perversi delle politiche di austerità ed era avanzato l'auspicio che l'Italia e l'Europa concertassero una svolta espansiva di politica economica, prima che l'Eurozona fosse a rischio. Siamo ancora in attesa di questo nuovo New Deal.

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