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Questo articolo è stato pubblicato il 28 dicembre 2012 alle ore 07:25.

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Si può discutere sulla sostanza della fatidica "agenda", ma di sicuro Mario Monti un risultato politico lo ha già ottenuto: ha messo se stesso e il suo manifesto al centro del dibattito pre-elettorale. Ai suoi tempi Ugo La Malfa seguiva un sentiero abbastanza simile quando predicava con tenacia: «Prima i contenuti, poi gli schieramenti». Il che non voleva dire sottovalutare il tema delle alleanze, bensì metterlo tra parentesi, nasconderlo ad amici e avversari fin quando non diventava conveniente parlarne; nel frattempo l'opinione pubblica doveva concentrarsi sui "contenuti", cioè sul programma.

Gli addetti ai lavori sapevano bene che tali "contenuti" sarebbero poi stati adattati, entro certi limiti, ai rapporti politici emersi dalle elezioni. Così, nella Prima Repubblica, il piccolo partito repubblicano riusciva a contare molto nel gioco delle alleanze.
Oggi che l'Italia è cambiata, Monti sembra seguire quell'esempio, sia pure rimodellato sul profilo della nascente, almeno si spera, Terza Repubblica. S'intende che le differenze non mancano e anche i protagonisti non sono quelli di un tempo. Resta il fatto che l'insistenza sull'"agenda" equivale a una carta politica giocata con abilità, il cui primo effetto consiste nel mettere gli altri sulla difensiva. Non parliamo di Berlusconi, costretto a radicalizzare sempre più i toni, trascinando il Pdl ai margini delle posizioni espresse dal Partito popolare europeo, come ha rilevato al momento del congedo il suo ex ministro degli Esteri, Frattini. Ma chi soprattutto è in difficoltà è Bersani, cioè il possibile, probabile partner di governo del Monti post-elettorale.

Si potrebbe dire: oggi avversari, domani alleati. Ma il percorso non è semplice né banale. I due mesi da qui al 24 febbraio saranno ricchi di insidie: soprattutto perché il leader del Pd non può permettersi di perdere il voto dell'opinione pubblica più europeista, consapevole che la necessità dell'Unione implica una strada obbligata, fatta anche di sacrifici. Questo voto Bersani se lo sarebbe aggiudicato con facilità in assenza di una "lista Monti". Oggi invece torna in ballo, obbligando il segretario a destreggiarsi fra posizioni non coerenti. In fondo, senza Monti in campo sarebbe possibile sfumare le differenze fra, ad esempio, un Enrico Letta e un Fassina. Con Monti sulla scena, e con Ichino che lo segue, gli alibi vengono meno e la via è in salita.

È vero, come ricorda D'Alema, che i sondaggi danno il Pd saldamente in testa, spesso oltre il 30 per cento dei consensi. Ma non è vero che l'opzione Monti sia irrilevante, quasi una distrazione della politica. Al contrario, essa può diventare molto dolorosa per il Pd. A patto, si capisce, che si sciolgano i nodi irrisolti intorno al premier. Il quale non potrà rinunciare a una lista di riferimento che sia realmente innovativa nelle persone e nel messaggio: una lista magari federata ai centristi tradizionali, ma capace di interpretare la novità. Si potrebbe dire che Monti ha afferrato il tema (l'Europa), ma non ha ancora dietro di sé un partito adeguato a sorreggere un'ambizione politica molto alta. E poi, naturalmente, egli stesso deve trovare le forme comunicative più adatte a farsi capire dalla grande massa degli elettori. Non sarà semplice, però il terreno della sfida è delineato. E non è un caso che Bersani cerchi spazio su altri versanti. Ad esempio candidando il procuratore anti-mafia, Grasso. Il che per la verità suscita più polemiche che consensi. Un altro segnale di quanto la campagna sarà complessa.

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