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Questo articolo è stato pubblicato il 05 gennaio 2013 alle ore 09:27.

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La Cina, che abbonda un po' di tutto ma non di petrolio, ha potenzialmente le massime riserve di scisti da idrocarburi al mondo: secondo la Us Energy Information Administration, la Repubblica Popolare possiede 36mila miliardi di metri cubi di shale gas solo in due bacini, più di qualunque altro paese.

Quanto basta per richiamare gli appetiti di «Big gas», un nome collettivo che ancora non esiste, ma che in qualche modo coincide con le multinazionali occidentali del petrolio – Big Oil – che nello shale gas vedono oggi la nuova frontiera da esplorare.
La settimana scorsa, ConocoPhillips ha annunciato un accordo con la cinese Sinopec per studiare insieme operazioni di estrazione nel bacino del Sichuan. Ma la Sinopec ha già un'intesa analoga con Chevron. E Shell con PetroChina. Bp e Total intanto, sarebbero vicine ad annunciare partnership del genere.
Un po' come accade in Europa però, le cose non sono così semplici. In primo luogo per l'accidentata orografia del territorio cinese, un po' per la mancanza di infrastrutture, ma anche per la limitata disponibilità d'acqua, che per la tecnologia del fracking è fatalmente una materia prima necessaria. Attualmente, la produzione cinese di shale gas è modestissima, ma il governo punta a 100 miliardi di metri cubi entro il 2020, un traguardo che gli analisti ritengono impossibile.

Sia il fracking che la perforazione orizzontale, sono tecnologie sviluppate in America da aziende americane. Le compagnie energetiche della Repubblica Popolare, hanno tutto l'interesse a stringere accordi di joint-venture con Big Oil. Ma anche ad andare a vedere di persona: la solita Sinopec ha comprato quote in cinque giacimenti americani di shale gas e di shale oil. Il che, dà un'idea della rivoluzione energetica – solo cominciata – degli idrocarburi nascosti nelle rocce.

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