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Questo articolo è stato pubblicato il 07 gennaio 2013 alle ore 07:15.

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La gente locale ama avvertire gli stranieri che gli ingressi per l'India sono tanti ma, una volta entrati, di vie d'uscita ce ne sono poche. Non sembra molto cambiato da trent'anni questo paese che si ostina a considerare un continente a sé, come un patchwork di localismi tra loro differenti. Una via d'uscita che trent'anni fa non c'era è la computer science, che coinvolge centinaia di migliaia di giovani indiani, gli occhi gentili e determinati, abbigliamento e modi tipici di un'ingenuità evoluta.

Oggi l'India esporta circa 50 miliardi di dollari di software in tutto il mondo e il sistema di Bengaluru, con 4 maggiori università, produce, oltre che export di software, 30mila ingegneri l'anno: è l'incarnazione del modello di diamond framework di Michael Porter, è un'altra India all'altezza dei tempi.
Trent'anni fa da queste parti, eravamo noi a fotografarli violando la loro riservatezza; ora sono spesso gli indiani a chiedere di poterci fotografare vedendo negli occidentali una curiosità utile a scoprire il futuro della loro adolescenza economica e tecnologica.
Una via d'uscita è dunque la crescita tecnoeconomica che tuttavia non è sufficiente per una popolazione che ormai supera il miliardo almeno di 2-300 milioni. Per molti aspetti l'India è rimasta un gigante demografico aggrappato al passato: una mentalità vischiosa e resiliente in una terra di varietà di colori e di opposti, come quello più evidente tra ricchi e poveri, con una classe di mezzo in crescita, ma ancora in larga minoranza, anche nelle città, dove è più presente. La spiritualità indiana che gli occidentali hanno sempre scambiato per un viatico all'estraneazione e all'astrazione "pura", al contrario, rimane l'unica forza concreta per reggere il corpo a corpo quotidiano imposto dalla miserabile vita materiale indiana.

Così da un lato, abbiamo multimiliardari supersonici come Mukesh Ambani, Lakshmi Mittal (4° e 5° più ricchi al mondo secondo Forbes), Ratan Tata o great thinkers come Amartyia Sen, Vijay Govindarajan, Vikram Seth, e, dall'altro, la lotta ostinata per guadagnarsi i due dollari giornalieri e il timido inizio di processo di secolarizzazione della mentalità: da un canto, una finestra sul mondo evoluto che si sta spalancando con l'avvento delle nuove generazioni digitali, dall'altro, la persistenza di mondi e riti tribali come l'allucinante cerimonia giornaliera al tempio di Shiva a Khajuraho o le cremazioni al Manikernike Ghat, in un'atmosfera di morte fumante da inferni danteschi: i giovani sulle rive del Gange che, con grosse ceste, drenano cenere e carboni umani dispersi in acqua nella speranza di trovare l'oro indossato dai defunti; i cani che tra le ceneri spente rosicchiano ossa umane sopravvissute ai falò; i bufali che ruminano i fiori colorati che ornavano lettighe di bambù utilizzate per portare in spalla i defunti fin lì.
Parlare di classe media importante in un paese con centinaia di milioni di poveri è per ora una speranza che alcuni osservatori occidentali hanno affrettatamente metabolizzato come certezza. Certo in Punjab l'agricoltura e l'industria elettrica sono floride per l'abbondanza d'acqua e il livello di vita è molto più elevato di quello dell'Odisha povera e arretrata, con un territorio ancora occupato da tribù poco civilizzate a ovest di Bhubaneswar.

A vedere ogni giorno materializzata nelle strade, in particolare nelle grandi città, l'incalcolabile diffusione della disoccupazione viene da immaginare che Carlo Marx sarebbe dovuto venire in India per coniare il suo concetto di esercito industriale di riserva a scala globale. I numeri contano e non contano, perché tutto è così sfacciatamente visibile: la numerosità schiacciante dei giovani, la popolazione incalcolabile di città come Delhi, Kolkata, Varanasi, l'ascesa della ricchezza a Mumbai, il progresso più ordinato del Kerala, la forza tecnologica delle generazioni formate a Bengaluru, in Karnataka. Insomma, la statistica serve poco e, in India, si dimostra una matematica fallace, mentre è l'informatica la matematica di successo, il nuovo sapere codificato e generativo coltivato tra Bengaluru e Mumbai, la città del business. Visibile è anche la frammentazione localistica eretta a sistema, a ordine sociale: ogni villaggio, ogni small town ha i suoi partiti che animano un sistema politico frammentato, sempre più legato all'emergere in politica dei dalit, degli intoccabili, che, diventati boss politici locali, finiscono per creare piramidi clientelari e corruttive pur di entrare nei due rami parlamentari nel Lok Sabha (camera bassa) o nel Rajya Sabha (consiglio degli stati). La democrazia indiana sarebbe quindi corrosa proprio da processi che essa attiva, elevando a élite nazionale personale che proviene dagli intoccabili, cioè da un mondo sociale non preparato moralmente e culturalmente a guidare un grande paese. Molti scienziati sociali spiegano così la corruzione, davvero diffusa in politica, tra la burocrazia e le forze dell'ordine.

L'India si presenta come un punto di osservazione importante anche per l'Italia: come a casa nostra, il ceto politico parlamentare e regionale ha dimostrato più volte che i suoi limiti culturali e morali - la debolezza in competenza e la sua forza in consenso clientelare - sono superconduttori di corruzione e di burocrazia lenta e inefficiente. Non a caso, in entrambi i paesi, l'antipolitica agita le acque della politica.

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