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Questo articolo è stato pubblicato il 13 gennaio 2013 alle ore 14:50.

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Enrico Cuccia ebbe molti fra avversari e nemici, ma forse un solo, vero concorrente: Luigi Arcuti, spentosi ieri nella sua Torino a 88 anni. Come il vecchio "patron" di Mediobanca, anche Arcuti non ha mai pensato di lasciare memorie in vita: com'è lecito attendersi da un banchiere vecchia scuola, protagonista e testimone di infiniti segreti. «Centauro» come Cuccia – pubblico nella proprietà bancaria che immancabilmente si ritrovava nell'Italia del dopoguerra; privato nello stile professionale – Arcuti entra 19enne al San Paolo di Torino e a 50 anni ne diventa direttore generale. Ma sul proscenio della storia finanziaria entra solo nel 1980, quando è nominato presidente dell'Imi.

L'istituto mobiliare italiano – nato "gemello minore" dell'Iri che avrebbe partorito le Bin e Mediobanca – è già una banca d'affari centrale nell'azienda-Italia, anche se più concentrata sui finanziamenti industriali a lungo termine che sul merchant banking. In Viale dell'Arte Arcuti si troverà a combattere su due fronti: sul mercato e nelle aule giudiziarie, e con il fiato al collo della politica.

Il versante strategico lo vede incalzare Mediobanca su due linee competitive: il tentativo di dotarsi di una rete di collocamento di strumenti di raccolta analogo a quello garantito a Via Filodrammatici da Comit, Credit e BancoRoma; e lo sforzo di superare questo muro per via innovativa. Il primo obiettivo viene mancato, nonostante la lunghissima gestazione del progetto che avrebbe dovuto porre l'Imi al centro delle grandi Casse di risparmio. Solo nel 1993, quando il Tesoro privatizza l'istituto con un'Opv integrale, l'Imi è agganciato a un nocciolo duro formato da Cariplo, Mps e dallo stesso San Paolo: premessa alla fusione con il polo torinese, di cui Arcuti è presidente e infine presidente onorario a coronamento di un cursus d'eccellenza. Ma a lui piaceva di più ricordare i ruggenti anni 80, nei quali Imi aveva schierato Fideuram e Sige come aggressiva coppia d'attacco in un derby che Arcuti aveva vinto contro Cuccia forse anche più che moralmente. L'intuizione strategica di sviluppare rapidamente la raccolta di risparmio gestito (mercato appena aperto in Italia) con un broker che diviene modello delle future Sim (anche per la guida manageriale di Gianmario Roveraro) resta il trofeo più importante nel palmarès dell'austero banchiere piemontese. E non solo a beneficio delle business school: è l'Imi di Arcuti (riservato e indipendente, ma mai sgradito alle sinistre) che nel 1996 accompagna in Borsa Mediaset. E ancora l'Imi (già fusa con il San Paolo) che lancia nell'orbita di Piazza Affari Tiscali: simbolo della new economy in Italia.

Lungo un ventennio, Arcuti si trova tuttavia a gestire anche l'eredità gravosa del caso Imi-Sir: vicenda fra le più oscure della storia repubblicana recente. Nino Rovelli, industriale chimico fallito a fine anni 70 nonostante un salvataggio bancario pilotato dall'Imi, cita per danni i suoi creditori e nel 1992 una clamorosa sentenza finale obbliga l'Imi a versare 980 miliardi di vecchie lire. Solo nel 2006, il secondo capitolo si chiude con le condanne definitive di magistrati e legali romani (fra cui Cesare Previti) per corruzione giudiziaria. Arcuti ha lasciato da tempo il San Paolo, che si accinge a fondersi con Banca Intesa, ma i suoi diari hanno fatto a tempo ad annotare ancora avvenimenti di primo livello, a cominciare dall'Opa del '99 del Sanpaolo su Banca di Roma (gemella di quella di UniCredit sulla Comit) che si annuncia come uno scacco matto verso Mediobanca. La Bankitalia di Antonio Fazio fa muro e Arcuti non sembra turbato più di tanto per una scalata che – probabilmente – stava più a cuore alla famiglia Agnelli, da poco entrata nel nocciolo duro di Piazza San Carlo. Idem quando Telecom viene messa sotto attacco dalla "razza padana" e Sanpaolo è di supporto al piccolo nucleo stabile pilotato ancora dalla famiglia torinese. Il Sanpaolo non resta in trincea neppure quando sull'Ina piomba l'offerta delle Generali, ma Arcuti ottiene la sua preda: il Banco di Napoli. Fa a tempo a lasciare traccia anche su un tavolo apparentemente minore: la gara con il Monte dei Paschi per la rampantissima Banca del Salento. Quando la valutazione richiesta dai vertici pugliesi (quattro volte il patrimonio netto e un posto nel top management) diventa troppo esuberante è lieto di lasciare il campo a Siena.

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