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Questo articolo è stato pubblicato il 02 febbraio 2013 alle ore 09:40.

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Dopo quello delle autovetture, è arrivato anche il calo delle immatricolazioni nelle università: ambedue ampiamente attesi e prevedibili, con la differenza che per rimediare al secondo nessuno si è sognato di immaginare misure analoghe agli incentivi alla rottamazione. Si fa sempre più sbiadita l'immagine dell'Italia degli anni Sessanta, quando l'acquisto dell'utilitaria e la possibilità di accedere all'istruzione superiore rappresentavano icasticamente un Paese in movimento, in cui per ognuno sembrava potersi dischiudere la possibilità di "farsi strada". L'opposto della sensazione del Paese immobile, che da una folla di indicatori sembra invece emergere oggi. Ma più che immobile, dovremmo meglio dire un Paese immobilizzato: un grande vascello incagliato su una secca, mentre il cielo si fa sempre più tempestoso e il ponte di comando appare pericolosamente sguarnito.

In questi giorni si sono levati cori di riprovazione per la progressiva autoemarginazione dell'Italia dal novero delle economie più sviluppate. Primi per il possesso di cellulari tra i membri dell'Ocse e terzultimi per il numero di laureati: dati da Paese in via di sviluppo o, più precisamente, in via di de-sviluppo. In realtà tutto questo è anche l'effetto cumulato negli anni di politiche di "tagli lineari" alla spesa, che hanno provocato la progressiva impossibilità di funzionamento di un sistema pubblico di alta formazione. Scelte che hanno sempre privilegiato l'immediato presente, tentato fin quando possibile di tutelare il passato (tra diritti quesiti, sanatorie e condoni) e altrettanto regolarmente hanno sacrificato il futuro.

Adesso ci "accorgiamo" che all'Università manca tutto: professori, studenti e denaro, così che di conseguenza la ricerca non può che languire. È un danno incalcolabile per le giovani generazioni, indubitabilmente. Ma è un danno più complessivo per tutto il Paese, che oltre al rischio della de-industrializzazione fronteggia due spettri altrettanto temibili. Il primo, il più ovvio, è quello di un impoverimento complessivo del suo capitale umano. Un altro asset che se ne va dal già magro bilancio di un'Italia incapace di attirare capitali dall'estero o persino di trattenere i suoi propri. Non bastavano i tempi biblici della giustizia civile e delle risposte amministrative, i bizantinismi delle procedure burocratiche, la corruzione endemica, la diffusa evasione fiscale, l'oppressione della malavita organizzata e le infrastrutture in gran parte obsolete: occorreva aggiungere anche l'onta dell'ignoranza.

Il secondo è quello della perdita di uno strumento, a un tempo, di mobilità e di coesione sociale. Perché la convinzione che investire nella propria formazione culturale rappresentasse la miglior forma di investimento possibile era debitrice tanto all'idea di merito quanto a quella di equità: un futuro migliore a disposizione di chiunque provasse a valorizzare le proprie capacità. Si era trattato di un cambiamento non di poco conto per un Paese come il nostro nel quale, al di là di un omaggio spesso solo formale, il riconoscimento per le competenze e il rispetto per la conoscenza hanno sempre fatto molta fatica ad affermarsi. Esso implicava la convinzione che la conoscenza (quello che conosco, il capitale sociale che mi costruisco da solo) era finalmente ritenuta più rilevante delle conoscenze (quelli che conosco, il capitale sociale che normalmente eredito dalla mia famiglia), dove le seconde incarnano e cristallizzano il privilegio, e la prima l'uguaglianza intesa proprio come negazione del privilegio. Si dirà che i giovani laureati continuano ad avere più chance di trovare un lavoro più rapidamente e meglio retribuito dei giovani diplomati. È vero. Ma la sensazione che si va diffondendo è che una buona laurea in una buona università (e ancora ce ne sono) non funzioni più come un effettivo ascensore sociale: perché per conseguire successo e reddito altri fattori sono realmente decisivi, a cominciare dal network di conoscenze messo a disposizione dalla famiglia di origine. Detto altrimenti, l'investimento in conoscenza non riesce più a colmare il deficit di conoscenze, ma semmai funziona da moltiplicatore del "fattore familiare": perché sono le seconde che determinano in maniera molto più decisiva della prima l'accesso o l'interdizione alle carriere più prestigiose e ai redditi più elevati, perché chi conosci fa la differenza molto più di cosa conosci. Si tratta di un balzo all'indietro di quasi cinquant'anni per la società italiana.

Tantopiù in tempi di crisi, dunque, è difficile stupirsi che un numero crescente di famiglie possa sempre meno affrontare il rischio che il ritorno sull'investimento in conoscenza dei propri figli possa essere poco remunerativo, troppo lungo o troppo incerto. È su temi come questi che sarebbe lecito aspettarsi un confronto in campagna elettorale, tra proposte concrete e alternative sulle misure possibili per correre ai ripari. Sempre che a qualcuno interessi davvero qualcosa.

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