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Questo articolo è stato pubblicato il 06 febbraio 2013 alle ore 07:48.
L'ultima modifica è del 06 febbraio 2013 alle ore 08:49.
Le retribuzioni degli executive hanno ripreso a crescere, senza tener conto apparentemente dei policy maker, della pressione mediatica e dello scontento degli azionisti. L'inversione, già avvertita nel 2010, è stata confermata per il 2011 da numerose fonti. Secondo l'autorevole Incomes Data Services - appartenente a McGraw Hill come la "cugina" Standard&Poor's - il compenso mediano dei Ceo delle aziende Ftse100, è salito in quell'anno, del 10,6%. Una tendenza che contagerà anche il mercato italiano innescando ulteriori polemiche alla prossima tornata di bilanci.
È possibile formulare un corretto giudizio sulle politiche di remunerazione della singola società e con che chiave devono interpretarla gli investitori e gli azionisti? Una domanda ineludibile poiché il compenso dei top manager è troppo distante dal salario e dalla precarietà del lavoratore medio provocata dalla crisi. Il problema è complicato dalla sofisticazione (forse eccessiva) dei modelli utilizzati e dal peso determinante degli strumenti finanziari nell'incentivazione del management. Nel periodo di elaborazione della politica per l'anno in corso, i cda potrebbero utilmente riflettere su tre possibili cambiamenti che troverebbero una buona accoglienza da parte degli stakeholder e in particolare degli investitori stranieri.
Una premessa è utile. Dall'inizio della crisi, i policy maker a livello comunitario e nazionale sono intervenuti a più riprese chiedendo ai consigli di amministrazione e ai comitati di remunerazione una maggiore trasparenza e un miglior governo della materia nella speranza di porre un freno ai compensi elevati dei manager. La disclosure prevista dalla recente Relazione Consob ha cominciato a produrre effetti migliorativi propri della sua funzione: ridurre le asimmetrie e consentire agli azionisti il controllo dell'operato degli amministratori. D'altra parte, ha confermato quanto sia illusorio sperare di calmierare i compensi attraverso la trasparenza. Le ricerche mostrano che la pubblicità del guadagno, visibile nel mondo del calcio ma anche del management sportivo, può produrre conseguenze non previste e trasformarsi in un propellente per una rincorsa verso l'alto. Vengo ai suggerimenti.
1) Il peso della retribuzione fissa dovrebbe essere inferiore. La retribuzione mediana dei capi azienda delle aziende Ftse-Mib nel 2011 è rimasta a 2,3 milioni di euro nonostante che il Tsr (l'andamento del titolo più il dividendo reinvestito) delle imprese sia sceso del 29,5%. La stabilità della remunerazione è una conseguenza del pacchetto degli executive: circa il 50% del loro compenso è fisso e senza rischio. Al contrario, il mix retributivo (non comunicato dalla maggioranza delle imprese) costituisce l'architrave di una politica retributiva. Nel mercato internazionale il fisso di un top manager non supera il 30% del totale, privilegiando la performance a breve e a lungo termine. Un livello che attenuerebbe l'effetto "Club" sulla retribuzione, relativamente indifferente alla dimensione e alla complessità dell'azienda (si veda il primo grafico).
2) Un indicatore che consenta l'apprezzamento dei compensi in termini semplici. "Stiamo pagando la performance", è il mantra che giustifica gli alti compensi. Ma rimane evidente che i numerosi studi disponibili producono diagnosi contraddittorie sull'allineamento tra risultati e compensi. L'Osservatorio sull'Eccellenza della Governance di The European House – Ambrosetti da cinque anni offre dati per nulla confortanti sulla correlazione tra i compensi e le misure di performance più utilizzate dalle imprese: Ebit, utile netto, Roe, Roace. Un indicatore semplice potrebbe offrire una fotografia diversa e immediata: per ogni euro pagato al manager, quanti euro guadagnano gli azionisti? Il secondo grafico mostra una prima applicazione del concetto alle maggiori aziende italiane per il periodo 2009-2011: l'Ad di Eni ha prodotto 815 euro a favore degli azionisti per ogni euro incassato, davanti a quello di Atlantia con 301, a Luxottica con 293. Il calcolo è basato sulla crescita del valore del titolo nel periodo, inclusi i dividendi reinvestiti, rapportata al compenso (fisso, variabile annuale, incentivi di lungo termine cash, fair value degli strumenti finanziari) erogato al capo azienda. Naturalmente il calcolo renderebbe visibili i casi di valore negativo.
3) Raccontare meglio la "storia" della retribuzione. La pressione mediatica e l'attivismo degli investitori istituzionali, appoggiati da proxy advisor come Iss - Institutional Shareholder Services - stanno progressivamente alzando il velo e riducendo la "rendita" di cui gli executive sono sospettati. Nel Regno Unito, durante le assemblee 2012, la shareholder spring ha causato risultati ammonitori. Le aziende "bocciate" erano di gran nome (Aviva, Astra Zeneca, Barclays) e hanno fatto impressione. Negli Stati Uniti il 2% dei board dell'indice Russell 3000 ha ricevuto un voto contrario, sulla base del say-on pay introdotto dal Dodd-Frank Act. In Italia, l'unico caso di votazione negativa (Impregilo) era intrecciato con lo scontro per il controllo della società.
Tuttavia depurando i risultati dal voto degli azionisti di riferimento si scopre che alcuni cda delle imprese Ftse Mib hanno ricevuto votazioni contrarie da parte degli investitori istituzionali. La relazione sulla remunerazione tipica si è adagiata sulla mera compliance, non sempre, con il Regolamento Consob e la sua lettura scoraggia un normale lettore o anche un giornalista. Certo non ha spiegato a un piccolo azionista perché certi compensi a fronte delle loro perdite. Una relazione più agganciata alla strategia del business, chiara nei numeri, e più ricca di grafici, che mostri quanto il compenso spinga la performance, contribuirebbe alla buona reputazione della società e del management.
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