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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2013 alle ore 06:39.

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Investire in Italia? Convogliare capitali americani nel nostro Paese? La domanda potrebbe sembrare retorica se non fosse che oggi diventa lo svincolo su cui si potrà giocare la nostra competitività strategica da qui ai prossimi anni. E se non fosse che siamo tremendamente indietro, al 26esimo posto nella graduatoria degli investimenti diretti americani in Italia: il problema resta, nonostante i progressi dell'ultimo anno, abbiamo ancora un problema di “fiducia”.

È di questo che si è parlato ieri a New York nel corso di un convegno organizzato dall'International Business& Investment Initiative (IB&II) davanti a una platea di investitori americani e italiani che operano dagli Stati Uniti e con messaggi da un podio con i massimi vertici della rappresentanza istituzionale e aziendale italiana. Sul fronte istituzionale, il ministro del Tesoro Vittorio Grilli, l'ex presidente del Consiglio Giuliano Amato e l'ambasciatore americano a Roma David Thorne. Su quello aziendale i top manager di Eni, Paolo Scaroni, Enel, Fulvio Conti, Wind, Maximo Ibarra, e Alitalia, Andrea Ragnetti. Ammissione di errori, promesse come quella del ministro Grilli che si dovrà continuare sulla strada delle riforme per ridurre le distorsioni competitive di una ingerenza troppo diffusa dello stato nell'economia.

Grilli racconta al publico che lo stato controlla al 100% circa 7mila aziende, anche di dimensioni piccole, che offrono servizi e attività produttive. Per lo stato è obbligatorio rivolgersi a loro quando c'è necessità di un servizio: «la distorsione sul rapporto qualità prezzo è enorme, non c'e'concorrenza». La lamentela di fondo degli americani è che non abbiamo un mercato trasparente, che siamo indietro sul fronte del lavoro e che, come ha sottolineato molto schietto l'ambasciatore Thorne, «il nodo chiave resta quello delle incertezze sul fronte giuridico, mancata certezza dei contratti e cause interminabili».

La conclusione di fondo è che il tempo stringe, gli altri avanzano e noi rischiamo di restare indietro. È di nuovo Grilli a rassicurare: «in novembre – dice - abbiamo cambiato marcia per creare lavoro, abbiamo chiesto negoziati privati fra aziende e sindacati, un cambiamento dell'approccio negoziale introducendo più flessibilita' e legando la produttività ai salari e nel nostro bilancio di dicembre gli aumenti di salario dovuti a produttività saranno tax free».

Ma è chiaro che i problemi sono strutturali, che occorre un approccio sistemico. È proprio l'ambasciatore Thorne a dare un quadro realistico della situazione, come per giustificare la riluttanza dei suoi connazionali a investire nel nostro Paese. Ricorda che General Electric ha investito 4 miliardi di dollari per acquistare Avio e che Blackrock è il secondo più importante azionista in Unicredit. «È ammirevole quello che ha fatto questo governo» dice Thorne, anche se un governo da solo può arrivare fino a un certo punto. Poi accompagna con un lungo eloquente sospiro una breve considerazione sulla nostra attuale situazione politica e ricorda che l'Italia è al 160esimo posto in una classifica di 185 paesi su trasparenza e affidabilità «su contratti che – dice - possono essere ritirati senza preavviso. Una riforma giudiziaria è fondamentale». E chiude: «l'altro nodo è la burocrazia, in una classifica dell'Ocse l'Italia è al 73esimo posto, non solo dietro a tutti gli europei, ma dietro all'Azebajan e al Ghana».

Tocca agli industriali cercare di dare rassicurazioni. Scaroni ricorda che il sistema-paese ospita anche un'azienda come la sua, al dicassettesimo posto per capitalizzazione globale, «leader assoluto in Africa, ma dove perdiamo soldi? In Italia e in Europa». Il problema osserva Scaroni non è solo italiano è anche europeo: «dal punto di vista del nostro settore l'Europa è il punto debole dell'economia mondiale». Conti lamenta eccessive regole per il suo settore, energetico-elettrico, ma ricorda che la sua azienda offre soluzioni tecnologiche d'avanguardia anche negli Stati Uniti: «siamo l'unica azienda ad avere in America tutte le fonti di energia rinnovabili in un progetto geotermico estraiamo calore dal terreno». Ibarra ricorda i dubbi su ipotesi di investimenti di Wind nel nostro Paese, ma è fondamentalmente ottimista, chiede solo di «investire in scuola e formazione per tornare a crescere, di investire in tecnologie digitali: per l'Italia può esserci un'occasione unica. Ragnetti prende atto delle difficoltà ma ricorda che la sua azienda è migliorata: «un tempo eravamo indietro per i fattori chiave, oggi siamo i migliori in puntualità, regolarita e fra i primi quattro per la gestione bagagli: volate Alitalia”. La sua diventa un'esortazione più generale a investire in Italia. Ma sono gli americani nel pubblico a ricordare situazioni difficili in cui si sono trovati. Nel caso di ieri, l'esperimento che ha cercato Fernando Napolitano il fondatore di IB&II è stato quello di creare un ponte fra gruppi americani che hanno il potenziale per essere operativi e i policy makers o dirigenti che possono avere in mano le leve per cambiare l'equazione.

Si sono così sentite le lamentele di un investitore americano, Michael Manella che cerca di agevolare l'esportazione dall'Italia di un certo prodotto agricolo e si è finora scontrato contro un muro di burocrazia «che mi ha solo fatto perdere soldi». O Thomas Gaynor dello studio legale Squire and Sanders basato a San Francisco: «manca il mercato, i tecnocrati servono fino a un certo punto». Il problema è anche nelle aziende piccole che non riescono a competere: il difficile accesso al credito rende ardua la concorrenza con l'estero. È Giuliano Amato ad allargare il dibattito, sposta il tiro ad esempio su freni demografici: «i giovani hanno energia e noi siamo un paese governato da anziani, possiamo lamentarci finchè vogliamo delle difficoltà di accesso al credito, ma fino a quando non ritroveremo l'energia sarà difficile cambiare tutto. Il tasso di natalità è basso? Riformiamo l'immigrazione, apriamo i confini».

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