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Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2013 alle ore 07:50.

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È presto per comprendere fino in fondo ciò che è accaduto tra Oscar Pistorius e la giovane fidanzata, raggiunta e uccisa dai colpi sparati dall'atleta proprio il giorno di San Valentino. Ma in casi come questi, un buon sopralluogo della scena del crimine sarà sufficiente per giungere a conclusioni e accertare le responsabilità.

Perché se di omicidio volontario si tratta, difficile si possa pensare a una premeditazione; più probabile pensare a un delitto d'impeto, di quelli che arrivano a conclusione di uno scontro, di un litigio. E sparare perché si è perso il controllo, perché le emozioni hanno travolto la ragione, non concede quella lucidità necessaria a costruire un alibi che regga. Soprattutto se non sei un delinquente abituale, e di fronte hai degli investigatori preparati.
Ma al di là del dramma di una giovane vita spezzata, anzi di almeno due, visto che Pistorius resterà segnato per sempre dall'episodio, c'è la constatazione di come siano frequenti i casi di sportivi coinvolti in gravi fatti di violenza. Per una terribile coincidenza, nel giorno di San Valentino di 25 anni fa, il pugile Carlos Monzon uccideva la moglie Alicia; per non parlare del celebre caso di O.J. Simson, uno dei più grandi atleti nella storia del football americano. Una chiave possibile di lettura è legata al tema della rabbia.
Cominciamo col dire cosa la rabbia non è: non è un sentimento, una condizione affettiva che dura più a lungo; e non è una passione, che permane ma è più profonda e travolgente del sentimento. Non è nemmeno uno stato d'animo, che corrisponde a una situazione affettiva di fondo, come ad esempio alzarsi al mattino sentendosi "giù di corda". La rabbia è un'emozione, vale a dire qualcosa che accade in rapporto a una situazione esterna, e perciò assume un ruolo sociale. Come ogni emozione, la sua principale funzione è quella di valutare costantemente ciò che accade nell'ambiente intorno a noi, in modo da poter reagire adeguatamente. In qualunque situazione che preveda un confronto, che si tratti di un meeting in azienda o un colloquio di assunzione, il nostro sistema emotivo ricalibra costantemente il nostro atteggiamento in rapporto al flusso di informazioni che ci arriva; e insieme regola il nostro corpo, preparandoci alla necessità di un'eventuale azione. Contemporaneamente, con le emozioni comunichiamo le nostre intenzioni, spesso con maggiore intensità ed efficacia di quanto possano fare le parole.

La rabbia è un'emozione primaria, atavica, e in quanto tale non necessariamente negativa. Nello sport può assumere valenze costruttive, trasformarsi in stimolo a competere, in "grinta", oppure declinarsi in forme del tutto negative, e così dettare un'entrata vigliacca a piedi uniti, una testata in pieno petto all'avversario, un orecchio staccato a morsi durante un match per il titolo mondiale dei pesi massimi, un sorpasso tanto azzardato da gettare fuori pista l'auto del rivale.
Esistono atleti cresciuti in un contesto culturale difficile, dove la violenza rappresenta una forma abituale di comunicazione. In casi come questi la manifestazione della rabbia diventa un segnale per marcare il territorio, e se con il successo non capita la fortuna di incontrare allenatori e società capaci, il soggetto, uomo o donna che sia, continuerà a portarsi appresso la fragilità dell'arroganza.
I riflettori, i media, possono costruire addosso all'atleta una corazza di onnipotenza, nascondere le paure di un ragazzino sempre allerta per il timore d'essere aggredito. Ma si tratta pur sempre di una corazza che non può coprire ogni cosa. Basta un piccolo pertugio perché il rifiuto colpisca, la frustrazione monti, la rabbia accechi.

Credere che un personaggio dello sport possa commettere crimini perché convinto d'essere inattaccabile, è un errore; potrebbe trattarsi di una teoria fondata se parlassimo di fatti premeditati; ma che il protagonista sia Monzon o Simpson, Zidane o Tyson, la costante è l'impeto, il discontrollo, quello che Daniel Goleman definirebbe il sequestro dell'amigdala.
Prevenire gesti estremi come quelli di Pistorius, se di omicidio volontario si parlerà, è pressochè impossibile. Lavorare sulla rabbia, sulla gestione delle emozioni nello sport (e nella società intera) è una sfida che dobbiamo raccogliere. Perché se i crimini violenti sono in costante diminuzione, nonostante i media continuino a occuparsene, la vera preoccupazione riguarda la conflittualità e l'incapacità sempre maggiore a negoziare con gli altri i nostri bisogni.

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