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Questo articolo è stato pubblicato il 16 febbraio 2013 alle ore 10:30.

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Nel clamore della campagna elettorale sono passati sotto silenzio i dati pubblicati a gennaio nel Bollettino della Banca d'Italia. Essi confermano che la crisi italiana non è affatto avviata a soluzione ed anzi rischia di aggravarsi ulteriormente. Tutti i leader avanzano proposte di riduzione della pressione fiscale, ma nessuno spiega in quale quadro di politica economica si collocano queste proposte.

Secondo la Banca d'Italia, nel 2012 il reddito nazionale è diminuito del 2,1% - secondo peggior risultato del dopoguerra -, e nel 2013 calerà ancora dell'1%; il reddito pro-capite sarà inferiore del 10% a quello del 2007: una caduta che non ha precedenti in tempo di pace. Le vicende dell'industria sono paradigmatiche: nel 2012 il fatturato è sceso di 37 miliardi, con una crescita, però, sui mercati esteri (+13) e un crollo sul mercato interno (-60). Molte imprese tagliano la capacità produttiva, l'innovazione o s'indebitano. Nel primo caso, riducono la domanda di lavoro. L'anno scorso l'occupazione è calata di circa 300.000 unità: ma ai quasi 3 milioni di disoccupati vanno aggiunti 500.000 lavoratori in Cig (+61%) e quelli esclusi dalla Cig in deroga.

Le difficoltà aziendali rendono più fragili le banche, nonostante sia cessata la fuga dei depositi. Nel 2012 le sofferenze sono passate da 107 a 125 miliardi; gli accantonamenti coprono meno del 50%; gli impieghi sono calati dell'1%: per le banche è sempre più difficile finanziare la ripresa. Il bilancio pubblico riflette le tendenze dell'economia reale. La Banca d'Italia calcola che il fabbisogno nel 2012 si sia attestato sopra il 3% del Pil; il debito pubblico è passato dal 120 al 128% del Pil. Milton Friedman sosteneva che la qualità delle teorie e dei modelli economici si misura dall'accuratezza delle loro previsioni. Per valutare l'efficacia delle politiche vigenti basta confrontare i dati della Banca d'Italia con le previsioni del Governo del dicembre 2011 all'atto della presentazione del decreto Salva Italia. Il Governo prevedeva una modesta riduzione del reddito nazionale (-0,4%) nel 2012, e una ripresa nel 2013 (+1%). Valutava inoltre il deficit tendenziale lasciato dal Governo Berlusconi al 2,5% del Pil e dichiarava che le misure previste nel Salva Italia lo avrebbero ridotto all'1,6% nel 2012 e a 0,5% nel 2013. A consuntivo, non solo la caduta del reddito è cinque volte quella prevista, ma il deficit è maggiore di quello che sarebbe stato, secondo il Governo, il suo valore in assenza di provvedimenti correttivi!

L'enorme scarto fra previsioni e realtà indica che il modello basato sul binomio "Austerità & Riforme Strutturali" non sta funzionando. La forza dell'industria italiana nei mercati esteri smentisce che all'origine della crisi vi siano problemi strutturali dell'apparato produttivo e del sistema-paese: laddove la domanda "tira" le imprese italiane vendono, e anche bene. All'origine della crisi c'è "solo" una depressione della domanda interna. Un modello che sbaglia le analisi e le previsioni sbaglia anche le prescrizioni. Di qui la necessità di riprogettare la politica economica.

In un articolo del 15 novembre scorso su questo giornale avevamo avanzato il dubbio che il Governo italiano avesse sottovalutato la misura dell'impatto depressivo dell'austerità. La letteratura empirica recente sui cosiddetti "moltiplicatori fiscali", oltre a confermare questa tesi, ne evidenzia l'endogeneità. Due economisti del Fmi, Blanchard e Leigh, sostengono che i moltiplicatori si modificano nel corso del ciclo economico e sono cresciuti rispetto ai valori "storici". Ne segue che la stessa austerità accresce i moltiplicatori, ed ha effetti negativi non lineari e maggiori del previsto.

La lettura delle recenti vicende italiane che ne emerge è che Berlusconi e Tremonti nel 2011 sbagliarono a non varare in tempo significative riduzioni "strutturali" (ad impatto differito) del deficit, alimentando così la sfiducia dei mercati verso l'Italia; ma la dose di austerità "a breve" adottata in autunno da quel Governo era adeguata. Il Governo Monti, con le manovre "strutturali" sui conti pubblici (pensioni), ha recuperato credibilità. Ma l'austerità addizionale (accise, Imu, ecc.), sommandosi a quella di Berlusconi, ha avuto effetti molto più negativi pur essendo quantitativamente minore: il risultato è stato un boomerang.

Le stesse analisi della Banca d'Italia, pur sostenendo le tesi ufficiali europee sul basso valore del moltiplicatore, contengono un'ammissione importante. Il Bollettino da un lato insiste nel sostenere che il valore del moltiplicatore è dell'ordine di 0,5, dall'altro attribuisce per 0,6 la caduta della domanda e del reddito alla sfiducia dei consumatori e delle imprese, aggiungendo significativamente che «non è possibile escludere che una parte dell'effetto dell'incertezza possa riflettere le misure di riequilibrio di bilancio». Se ne deduce un moltiplicatore intorno a 1, in linea con la letteratura empirica. Quelle stime poi non considerano l'impatto incrociato delle politiche di austerità nei diversi paesi europei. se lo facessero, il moltiplicatore risulterebbe 1,6 al limite dell'effetto boomerang. L'austerità europea pesa sui nostri conti.

Aspettiamo che di questi temi si parli nella campagna elettorale in corso. Perché il futuro Governo dovrà in primo luogo decidere se confermare la dichiarazioni di intenti di azzerare il deficit a fine 2013. Sceglierà la via di un'ulteriore stretta fiscale, con il rischio di deprimere ulteriormente l'economia? Oppure formulerà un programma ragionevole di rientro e - cogliendo le tardive, parziali aperture del Commissario Olli Rehn - chiederà alle autorità europee di tener conto dell'evidenza ex post sui valori dei moltiplicatori fiscali, e delle condizioni di crisi dell'economia italiana?

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