Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 19 febbraio 2013 alle ore 06:44.
L'ultima modifica è del 19 febbraio 2013 alle ore 07:25.
«Oltre ad avere debitamente organizzato la produzione, stiamo anche assicurandoci sbocchi sui mercati stranieri, concedendo pel momento la nostra rappresentanza per l'Argentina, Uruguay e Paraguay; e pensando alla costituzione di una filiale autonoma in Belgio, ove abbiamo già affittato un ottimo locale, nel centro commerciale della città». Il 18 agosto 1920 Camillo Olivetti scrive questa nota al direttore del Banco di Roma di Ivrea.
La produzione è basata soprattutto sulla macchina per scrivere M20. La strategia dell'internazionalizzazione è impostata. A 12 anni dalla fondazione, la Olivetti incomincia quell'apertura ai mercati internazionali che costituirà una cifra economica essenziale e un elemento identitario insostituibile nella sua storia: non solo con il fondatore Camillo, ma anche negli anni 40 e 50 con il deutero-fondatore Adriano e, dopo la fase di ibernazione finanziaria e di vitalità industriale garantite dal 1964 dal gruppo di intervento coordinato da Mediobanca, fino al ri-fondatore Carlo De Benedetti, in grado nel 1978 di ristrutturare un gruppo privo di mezzi finanziari e patrimoniali che, come diceva il presidente Bruno Visentini, «aveva bisogno non solo di risorse, ma soprattutto di un manager e di un imprenditore», istruendo così la metamorfosi definitiva dall'elettromeccanica all'informatica.
È dedicato alla prima fase della società di Ivrea, quella indissolubilmente legata a Camillo e a Adriano Olivetti, il saggio Essere impresa nel mondo. L'espansione internazionale dell'Olivetti dalle origini agli anni Sessanta, scritto da Adriana Castagnoli, docente di storia contemporanea all'Università di Torino, e pubblicato dal Mulino nella collana di studi e ricerche dell'Associazione Archivio Storico Olivetti.
L'espansione all'estero è, insieme, opzione strategica industrial-commerciale dell'impresa Olivetti e propensione biografico-culturale degli Olivetti. Questo elemento, di solito, viene trascurato dagli studiosi o, per meglio dire, viene messo in ombra dall'imponente profilo dell'estetica e della tecnologia dell'impresa Olivetti e dall'enigmatica statura, umanistica e industriale, di Adriano Olivetti. Fra l'agosto 1925 e il gennaio 1926 il giovane Adriano è negli Stati Uniti. Visita gli stabilimenti della Ford, che definisce nelle sue Lettere dall'America «un miracolo di organizzazione». Nel settembre 1925 il padre gli chiede, dall'Italia, di prendere contatto con i vertici della Remington, la maggiore produttrice di macchine per scrivere con la Royal e la Underwood.
L'obiettivo è ambizioso: proporre una fusione («una combinazione», scrive Camillo) fra le due società. Se la cosa fosse andata in porto, una volta liquidati i soci italiani, gli Olivetti avrebbero avuto una quota non irrilevante del nuovo aggregato. Una vera operazione di finanza industriale internazionale, che non viene accettata dai vertici della Remington, ma che mostra l'audacia di Camillo. Interessante come torni, pochi anni dopo, il rapporto fra Remington e Olivetti. Nel 1931 il presidente della Remington, James H. Rand Jr., visita la fabbrica di Ivrea. In un suo appunto la giudica «la meglio organizzata d'Europa». Ne resta così impressionato da fare un'offerta per rilevarne una quota a Camillo, che rifiuta perché «l'intervento di capitale straniero, pur partecipando in minoranza, avrebbe diminuito la nostra indipendenza».
Siamo in pieno Fascismo. Camillo è un socialista. Ebreo, per di più. La Olivetti è una delle imprese italiane che riesce a mantenere una posizione "equilibrata" nei confronti del regime e del modello economico autarchico. Questo gioco si confronta anche con le tendenze protezionistiche che, poco alla volta, si impongono in molti mercati esteri, favorendo le produzioni interne e obbligando le imprese straniere - come la Olivetti - a continue ristrutturazioni e riqualificazioni delle consociate e delle sedi di rappresentanza dove, oltre alle macchine per scrivere, si vendono macchine da calcolo. È nel dopoguerra che la Olivetti costruisce la sua fisionomia di gruppo sospeso fra una dimensione quasi campestre (Ivrea) e il cosmopolitismo dei mercati.
L'espansione procede nel resto d'Europa, in Sud America e Asia. Ma, secondo una costante storica che riguarda il capitalismo italiano del '900, l'America è il luogo dell'anima e dei progetti più avanzati. Così, per stare sulla frontiera della tecnologia la Olivetti apre nel 1952 a New Canaan, nel Connecticut, un laboratorio dedicato all'elettronica, che contribuisce alla serie dei grandi calcolatori denominati Elea. Alla fine del 1959 acquisisce la Underwood. Non è mai successo che un'azienda italiana ne acquisti una americana. I collaboratori di Adriano sono, in maggioranza, contrari. Per lui l'avventura americana è una occasione unica per stare nella roccaforte del fordismo e nell'avamposto delle nuove tecnologie. Poche settimane dopo, il 27 febbraio 1960, Adriano muore su un treno diretto verso la Svizzera. E molte cose, anche nell'internazionalizzazione dell'Olivetti, mutano irreparabilmente.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Permalink
Ultimi di sezione
-
Italia
Agenzia delle Entrate sotto scacco, rischio «default fiscale»
-
L'ANALISI / EUROPA
L'Unione non deve essere solo un contenitore ma soggetto politico
Montesquieu
-
NO A GREXIT
L’Europa eviti il suicidio collettivo
-
Il ministro dell'Economia
Padoan: lavoreremo alla ripresa del dialogo, conta l’economia reale
-
LO SCENARIO
Subito un prestito ponte
-
gli economisti
Sachs: la mia soluzione per la Grecia