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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2013 alle ore 08:30.

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Questo articolo è l'editoriale del Giornale di diritto amministrativo n. 3/2013 in uscita il 3 marzo 2013.

In Italia, come negli altri Paesi europei, la crisi del debito sovrano ha imposto di concentrare gli sforzi sulle misure di austerità, al fine di assicurare la sostenibilità dei conti pubblici e la stabilità finanziaria. Negli ultimi mesi, tuttavia, sono apparsi sempre più evidenti l'aggravarsi della situazione economica e il peggioramento delle condizioni di vita dei cittadini. In tali condizioni, diventa sempre più difficile anche rispettare i parametri di finanza pubblica concordati in sede europea e nell'ambito del Fiscal compact.

Si spiega così perché il tema della crescita sia entrato in molti Paesi e finalmente anche in sede europea al centro del dibattito e dell'agenda politico-legislativa. È quanto avvenuto pure in Italia, dove nel volgere di pochi mesi sono stati adottati in via d'urgenza due distinti decreti legge contenenti molteplici e minuziose misure per la crescita, commentate in questo e in altro numero (n. 11/2012) del Giornale di diritto amministrativo.

L'affanno del legislatore non consente tuttavia di dare per positivamente risolta la questione di fondo, che riguarda l'effettiva capacità dello Stato, e più in generale dei poteri pubblici a diversi livelli istituzionali (compreso quello europeo), di stimolare la crescita. Si tratta di un quesito le cui origini risalgono almeno allo straordinario sviluppo della globalizzazione, che, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, ha notevolmente ridotto le leve dell'intervento pubblico e seriamente minato le possibilità di governo dei mercati. L'interrogativo, poi, si è aggravato con la crisi fiscale e del debito pubblico. Tradizionalmente, i governi cercavano di guidare lo sviluppo economico attraverso un istituto classico del diritto amministrativo, quello dell'ausilio finanziario. Oggi, invece, si cerca di perseguire una missione quasi impossibile: promuovere la crescita con misure a "costo zero".

Nel caso italiano, queste misure a "costo zero" (o comunque bassissimo) sono affette da un singolare strabismo amministrativo. Da un lato, l'amministrazione è indicata come parte (rilevante) del problema; dall'altro, si continua a fare ampio ricorso a essa come parte (inevitabile) dell'auspicata soluzione.

Nella prima prospettiva, l'amministrazione, con le sue regole oscure e con le sue procedure farraginose, è considerata - certo non a torto - un ostacolo alla crescita. Di qui l'idea - per molti versi, però, velleitaria - che si possano costituire zone franche dalla burocrazia o cancellare dall'oggi al domani oneri e adempimenti (magari fino a consentire l'avvio di un'impresa in un giorno). Anche le lungamente attese e molto auspicate misure contro la corruzione pubblica finiscono per guardare all'amministrazione come a un fenomeno essenzialmente patologico.

Nella seconda prospettiva, invece, per promuovere lo sviluppo, si varano nuove politiche pubbliche, la cui attuazione è necessariamente affidata ad apparati amministrativi, vecchi o appositamente istituiti. Ad esempio, l'agenda digitale, da cui dipende la possibilità di trarre effettivo beneficio dall'impiego delle nuove tecnologie e di favorire l'e-government, dovrà essere attuata da un'agenzia pubblica. Analogamente, le misure nei settori delle infrastrutture e dell'edilizia richiedono una costante iniziativa e intermediazione amministrativa.

A causa di questo pericoloso strabismo, si finisce però per non inquadrare correttamente il problema dell'amministrazione e il ruolo che essa può giocare nella partita per la crescita. Sia le misure di riduzione del perimetro statale, sia quelle di gestione di nuove politiche pubbliche richiedono un'amministrazione sofisticata, in grado di operare con tecniche di analisi e strumenti di azione più raffinati, anche per meglio assistere imprese e cittadini nelle loro intraprese. Altrimenti, incertezza normativa e inadeguatezza amministrativa non generano soltanto costi pubblici, ma finiscono anche per ridurre drasticamente gli incentivi all'assunzione del rischio economico da parte dei privati.

Ecco perché non si può tornare davvero a crescere senza investire in capacità amministrativa. Non ci si può illudere di fare a meno dell'amministrazione; né scaricare su strutture sempre più inadeguate nuove e delicate funzioni. Bisognerebbe, invece, restituire dignità e senso della missione al servizio pubblico; immettere gradualmente personale più giovane e preparato; estendere le competenze e la sfera di influenza dei (pochi) corpi amministrativi qualificati esistenti nel paese; rilanciare finalmente - come si sottolineava già nel primo numero di questa rivista nel 1995 - tecniche di regolazione e di decisione coerenti con un metodo razionale del governare.

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