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Questo articolo è stato pubblicato il 26 febbraio 2013 alle ore 06:24.

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L'annuncio della rinuncia al soglio pontificio da parte di Joseph Ratzinger, espandendosi da Roma per cerchi concentrici, ha avuto il suo primo, diretto impatto sulla situazione italiana. Ci ha sottratto a una campagna elettorale asfittica, fatta di promesse al rialzo, concentrata sulle infelici battute dei candidati, priva di slancio ideale, non all'altezza della gravità dei problemi.

Il gesto del Papa ci ha allontanato improvvisamente della cronaca e ci ha fatto respirare l'aria della grande storia, mettendoci di fronte alla solennità dei momenti che segnano e interrogano tutti.
Questo evento ha certo una portata universale rispetto alle nostre patrie vicende. Tocca in profondità i processi delle scelte degli individui e i meccanismi di continuità delle istituzioni. Al di là di dietrologie fantasiose, forse non sapremo mai l'intreccio dei motivi che hanno spinto Benedetto XVI a lasciare il papato. Le ragioni principali sono indubbiamente il peso, diventato intollerabile, della carica e il dramma, intimamente sofferto, della responsabilità del governo della Chiesa. Joseph Ratzinger non è uno shakespeariano re Lear che abdica alle sue prerogative solo perché affaticato dall'età. È anche convinto che, per guidare la "barca di Pietro", occorra un successore che supplisca alla sua debolezza e che goda di una collaborazione che egli forse non ha sentito adeguata. Il suo è stato, insieme, un atto di umiltà, di coraggio e di sfida: il riconoscimento dei limiti e della fragilità del corpo e della mente di ogni uomo, ma anche la volontà di segnare un nuovo inizio, affidato però a chi verrà dopo di lui. È stato un ritirarsi perché le situazioni cambino, perché, magari, il governo della Chiesa diventi più collegiale, cosa necessaria nel «mondo d'oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede».
Diversamente dal suo rutilante predecessore, che, nella sua opera di proselitismo, privilegiava la fede «a uso esterno», e diversamente dal tormentato Paolo VI, un italico Amleto, Benedetto XVI ha rivolto teologicamente e filosoficamente con speranza lo sguardo suo e dei fedeli verso la dimensione interiore dell'uomo, invitandolo a superare la banalità della vita quotidiana, i miopi interessi, i giochi di potere (che ha visto, peraltro, anche attorno a sé). Egli ha posto in rilievo il fatto che la Chiesa, la quale dovrebbe essere l'Arca della salvezza che trasporta i fedeli dal tempo all'eternità, è «peccatrice». E ciò costituisce una grave denuncia, che toglie all'istituzione parte della sua superiorità morale e la sprona a guardare fuori di sé.
Benedetto XVI ha avuto il merito di riportare al centro dell'attenzione il bisogno del sacro rispetto alle certezze del dogma (a cui si sarebbe detto più incline), di invertire in qualche misura quella tendenza che il filosofo suo conterraneo, Peter Sloterdijk, ha individuato nella nostra modernità, in cui «con il passare del tempo, spariscono le enclave meditative e si sciolgono le convivenze di chi professa l'estraneità al mondo. Si spopolano i deserti salvifici, si svuotano i conventi, i vacanzieri subentrano ai monaci, le ferie sostituiscono la fuga dal mondo. I mondi intermedi del relax conferiscono senso empirico al cielo e al nirvana». La contemplazione, la meditazione, il progetto stesso di questo Papa di ritirarsi a pregare (perché ha detto che il cuore della Chiesa è «dove si prega») ripropone al cristiano la scandalosa verità che il suo regno non è di questo mondo.
La Chiesa cattolica, al pari di altre religioni, ha avuto ed ha difficoltà a comprendere il mondo moderno e a conciliarsi con esso (non è detto che i suoi contenuti e modelli siano tutti buoni). Molti aspetti del magistero di Papa Ratzinger non possono essere condivisi dai laici (nel campo della morale sessuale, del testamento biologico, anche se va riconosciuto che questo Pontefice si è opposto, trovando, sembra, diversi ostacoli alla commistione, spesso praticata, tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio).
Egli ha però impostato in maniera nuova il rapporto con chi non appartiene al gregge dei credenti. Ha cercato, ad esempio, di strappare la verità al suo degradarsi a semplice opinione, ha legato la ragione alla fede e, in Caritas in veritate, la verità all'amore. Nell'ottobre del 2011 ad Assisi è giunto perfino ad affermare che «nessuno è proprietario della verità», anche qui con una differenza di accento rispetto all'enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis splendor, dove la verità viene alla fine identificata con il messaggio cristiano, che risplende come il sole: chi non la vede è, in maniera implicita, considerato teoricamente e moralmente cieco, daltonico o in mala fede. Certo, tale sua posizione maggiormente aperta non ha fatto indietreggiare Benedetto XVI nella difesa della verità del Vangelo. Per il cristiano, infatti, la verità non è una cosa, ma una persona («Io sono la verità e la vita», dice Gesù), per cui, quando Pilato gli domanda «Cos'è la verità?», egli non risponde. Sarebbe stato - dice Kierkegaard - come chiedere a un orologio che ore sono. Il teologo Ratzinger non si è contentato di questa spiegazione, ma ha mostrato come il dubbio, il confronto con chi pensa diversamente e l'apprendere dagli altri siano essenziali anche per il credente.
Più che nel passato (o in maniera diversa da esso) abbiamo oggi bisogno di verità condivisa e, per giungervi, di un percorso comune e rispettoso tra uomini di buona volontà e di buon intelletto, spigolosi, non accomodanti, critici, ma disposti a cercarla senza pregiudizi, superando presunzione, rassegnazione e cinismo. La Chiesa ha molto da insegnare, ma ha anche diverse cose da imparare.

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