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Questo articolo è stato pubblicato il 05 marzo 2013 alle ore 07:10.

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Il destino di Bersani rischia di avere un connotato biblico. Nel senso che c'è un precedente: Mosé portò il suo popolo fin sulla soglia della Terra Promessa, ma non riuscì a entrarvi. Un'entità divina lo fermò poco prima e fu un altro il condottiero che compì l'impresa: Giosué. Bersani ha molti meriti. Ha imposto uno stile serio, in campagna elettorale ha parlato il linguaggio più realista, alieno dalle promesse demagogiche. Ha fatto del Pd una forza rassicurante, forse troppo. E ha cercato di modellarla a immagine di una certa Italia laboriosa e concreta.

Ma non è bastato: perché nel frattempo quella stessa Italia si è rivelata esasperata e irrequieta al limite dell'eversione, come talvolta capita quando la crisi economica incide in modo drammatico sulla vita delle persone e dei ceti medi in particolare.
Oggi la contraddizione di Bersani è la stessa in cui si dibatte il Paese. Il pericolo di sbagliare la mossa decisiva è molto alto e potrebbe avere conseguenze insondabili e dirompenti. Ecco perché domani la direzione dei "democratici" rappresenta un bivio su cui nessuno è autorizzato a ironizzare. È un passaggio politico di prima grandezza da cui dipendono molte cose.
I militanti e i quadri del Pd sono convinti che la stessa esistenza del partito sia in discussione. E può essere vero, ma non è detto che chiudersi in un fortilizio sia il modo migliore per difendersi. L'idea che l'identità e il futuro del Pd si tutelino imponendo a tutti i costi un governo Bersani, nonostante i segnali indichino che per tale esecutivo non ci sarebbe una maggioranza al Senato e quindi nemmeno il favore del capo dello Stato, è in sé distruttiva e persino un po' infantile.

Un governo di minoranza impotente ed effimero perché esposto a continue tempeste parlamentari. Oppure un governo subito battuto nel momento in cui va a chiedere la fiducia a Palazzo Madama. Quale sarebbe il tornaconto di una simile operazione?
Il sottinteso è chiaro: una volta battuto, Bersani si riterrebbe autorizzato a guidare, come premier sconfitto in Parlamento ma ancora in carica, le successive elezioni anticipate. Ma si tratta di un discreto azzardo, persino sorprendente. Se il calcolo si rivelasse sbagliato e nuove elezioni a distanza di due mesi non fossero favorevoli (in fondo perché dovrebbero esserlo, visto che non è cambiato nulla?) il destino del Pd e del suo gruppo dirigente sarebbe segnato.
Certo, sull'altro piatto della bilancia c'è il grande incubo dei "democratici": essere indotti a votare un esecutivo (in quel caso guidato da un nome più neutro) insieme a Berlusconi: la grande coalizione, il "governissimo". In altre parole: rifiutati da Grillo e risospinti nelle braccia dell'eterno avversario. Ma per evitare questo corto circuito non c'è che una via: affidarsi a Napolitano, evitare d'inchiodarsi all'ipotesi del governo Bersani. Mantenere aperti i canali istituzionali, anche nelle nomine ai vertici delle due Camere. In altre parole, non fare dei lavori della direzione, domani, una sorta di battaglia delle Ardenne.

Il fatto nuovo è che Grillo ha fatto lui l'apertura al Quirinale che il Pd finora si rifiuta di fare, convinto (ma per quanto tempo?) di poter imporre la sua scelta. Questa tendenza all'irrealtà può ancora essere corretta dal segretario, a cui non manca il senso della misura. D'altra parte la mossa di Grillo non può essere ignorata o sottovalutata. Come è evidente, il capo del M5S gioca di sponda sul Quirinale per sconfiggere Bersani e qualsiasi ipotesi di governo politico. Ma c'era da aspettarselo. Ora l'ipotesi di un nuovo "governo del presidente", fondato sulle riforme istituzionali (e sulla modifica della legge elettorale) più che sul rigore economico, acquista spessore. Il Pd fa ancora in tempo a cambiare rotta e a gestire questo sviluppo, anziché esserne scavalcato e poi costretto a inseguire.

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