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Questo articolo è stato pubblicato il 11 marzo 2013 alle ore 08:15.

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I risultati elettorali rendono molto difficile costruire un governo che garantisca stabilità e autorevolezza, proprio ora che sarebbero necessarie scelte incisive e una rinnovata capacità di dialogo con i partner europei. Il punto su cui occorre grande chiarezza è che il quadro macroeconomico non consente all'Italia di onorare gli "impegni" assunti con l'Europa.

Approvando il six-pack e il fiscal compact, tra il 2011 e il 2012, ci siamo frettolosamente disposti a perseguire sin da quest'anno il pareggio di bilancio (in termini strutturali, aggiustato cioè con l'andamento ciclico) per proseguire successivamente con una politica di contrazione del debito pubblico tendente ad abbattere in venti anni il rapporto tra debito e Pil, dall'attuale 127% sino al 60 per cento. È la drastica politica di austerità voluta dalla Germania, che se effettivamente perseguita produrrebbe conseguenze nefaste, esponendo il Paese - come paventato nella Lettera sottoscritta nel 2010 da 300 economisti - al rischio di scivolare in una "spirale greca" e persino di essere infine costretto a lasciare l'euro.
Per precisare quanto siano insostenibili quegli "impegni", cominciamo col ragionare prendendo per buone le ipotesi contenute nella "Nota di aggiornamento" del Governo Monti, del settembre scorso, per quel che concerne il tasso di crescita del Pil (reale, nominale e potenziale) nonché l'andamento del costo medio del debito. L'analisi mostra che per ottenere il pareggio del bilancio in termini strutturali e poi abbattere il debito ai ritmi previsti dal fiscal compact (portando il debito al di sotto del valore del Pil già tra il 2020 e il 2021) sarebbe necessario portare l'avanzo primario sopra il 5% del Pil. In altre parole, per fare i "compiti a casa" (e meritarci anche gli eventuali aiuti del fondo salva-Stati) dovremmo arrivare a mettere in fila, per ben venti anni, manovre tali da contenere la spesa pubblica al di sotto delle entrate fiscali (interessi sul debito a parte) in misura superiore agli 80 miliardi di euro. Per avere un metro di confronto, si ricordi che il valore netto della manovra salva-Italia di Monti era di poco superiore ai venti miliardi e che l'avanzo primario nel 2012 è stato di circa due punti e mezzo. Dovrebbe essere già chiaro, quindi, quanto quel sentiero non sia percorribile sul piano economico, sociale e politico.

Quel che è peggio è che l'analisi appena descritta può essere considerata indicativa solo in primissima battuta. Come si è detto, infatti, essa si fonda sulle ipotesi ottimistiche del Governo uscente e non tiene adeguatamente conto degli effetti di retroazione negativi che ulteriori dosi di austerità avrebbero sulla crescita. Quanti vogliono continuare a credere nella favola dell'austerità espansiva sono naturalmente liberi di farlo, ma - come ho già avuto modo di scrivere sul Sole 24 Ore - numerosi centri di ricerca internazionali ormai riconoscono che i moltiplicatori della politica fiscale (che misurano gli effetti di una variazione dei saldi fiscali sulla crescita) sono stati sottostimati dai governi d'Europa, italiano incluso. Tutto ciò semplicemente significa che gli avanzi primari da 80 miliardi di euro necessari per pareggiare il bilancio e abbattere il debito, ridurrebbero ulteriormente la domanda delle famiglie e delle imprese, con effetti contrattivi sul Pil e sulle stesse entrate fiscali. Da qui il rischio di una "spirale greca", dove l'austerità genera la recessione e il fallimento degli obiettivi di finanza pubblica; a ciò segue nuova austerità, e così via.

È chiaro che il nuovo Governo italiano dovrebbe ricontrattare regole e obiettivi di finanza pubblica con l'Europa, chiedendo in questa fase di non andare oltre la stabilizzazione del rapporto tra debito pubblico e Pil ai livelli attuali, con riferimento all'orizzonte temporale della legislatura. Una strada, questa, prudente e concretamente perseguibile, che permetterebbe di tenere fermo l'avanzo primario su valori inferiori al 3% del Pil, dando respiro all'economia. Certo, è estremamente difficile ottenere il via libera in Europa su un percorso simile, tenuto conto della rigidità del blocco intorno alla Merkel. Ma per salvaguardare la tenuta dell'eurozona serve proprio una svolta in direzione di politiche fiscali più espansive, opportunamente assecondate da una banca centrale che agisca non diversamente dalla Fed statunitense.

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