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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2013 alle ore 07:58.
L'ultima modifica è del 13 marzo 2013 alle ore 07:58.

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Fino a quando reggeranno i castelli fatti d'aria dell'Italia dei "pagherò"? C'è un'economia ormai fondata su una fiducia tra disperati che si impegnano a remunerare lavoro e servizi in un indefinito domani, quando il Paese sarà uscito dalle secche della recessione più drammatica del dopoguerra. Insomma, un'Italia dell'economia dove nessuno può o vuole pagare ciò che deve perché il primo a non farlo è lo Stato, il pagatore peggiore di tutti (con oltre 100 miliardi di debiti non onorati).

Al contempo c'è un'Italia della politica che ha vissuto di continui "pagherò", a cominciare dalla riforma elettorale fino a quelle utili a sbloccare lo sviluppo e la ripresa, che tuttavia ancora non abbandona toni e comportamenti da campagna elettorale cronicizzata, dove promesse, invettive, propaganda diventano i mattoni fatti d'aria di un castello di parole e, alla lunga, di irresponsabilità.
Due Paesi di promesse mancate dunque che, tuttavia, scaricano sui cittadini senza scudi e senza difese le conseguenze reali (non di aria) della peggiore depressione economica. Forse anche a questo è ascrivibile la reazione rabbiosa nelle urne e la fuga, sempre più accentuata, nel mercato grigio del sommerso. Forse è per questo che Istat e Cnel segnalano come in Italia «vi sia il più basso livello di fiducia verso gli altri»: un Paese di cittadini-lupi (o furbi o frustrati) in cui la fiducia malata tra disperati non è mai vera fiducia.

In questo contesto anche il dato della performance delle entrate fiscali (+2,8% contro un calo del Pil quasi analogo ma con segno contrario) non va nella direzione della fiducia: semplicemente dimostra come l'Italia sia ormai un Paese stritolato da un fisco diventato tra i più voraci del mondo (e percepito come rapace e iniquo) e una non-crescita che induce povertà reale (sette milioni di famiglie), glaciazione nei consumi, restringimento della base produttiva (-20%), aumento degli accantonamenti "in vista della catastrofe", crescita della disoccupazione, scoraggiamento dei giovani verso l'università e il lavoro stesso, ripresa dell'emigrazione, interna e non.
Il castello delle partite dei pagamenti pendenti regge fino a quando qualcuno non decide di vedere il bluff.

H anno cominciato le banche il cui ruolo in questa partita è sempre stato ambivalente: chiedono con sempre più frequenza il rientro dei fidi, ma stringono con implacabile razionalità matematica il plafond dei prestiti. Le erogazioni sono calate del 5%, nel complesso mancano all'appello 46 miliardi, i tassi aumentano
più che nei Paesi competitori e cresce la differenza tra grandi e piccole imprese (che pagano da uno a tre punti in più);
i fallimenti e i protesti schizzano a record impensabili solo qualche
mese fa.
È evidente il doppio effetto perverso che determina il paradosso di far cadere l'impalcatura dell'"Italia dei pagherò" senza però sostituirla con la normale "Italia dei pago". La liquidità purtroppo non affluisce ancora al sistema produttivo e si ferma nei caveau degli istituti che tuttavia si approvvigionano a tassi quasi inesistenti presso i forzieri della Bce: probabilmente, in futuro potranno farlo con ancora maggiore facilità se passerà la possibilità di scontare come garanzie anche gli "incagli" non ancora diventati sofferenze, si spera che ciò faciliti l'afflusso di risorse verso il mondo della produzione.

Data questa situazione di tempesta perfetta che blocca l'Italia, i partiti – o i movimenti che siano – hanno il dovere di non lasciare il Paese allo sbando, come fosse una barca con le vele al vento, preda di un molesto rollìo senza energia. Per questo è quanto mai urgente un Governo, credibile e autorevole, anche agli occhi del mondo, per affrontare da subito le urgenze dell'economia reale. Questo Parlamento in fase di composizione invece sembra oscillare tra il tanto peggio tanto meglio delle "elezioni subito", una riedizione drammatica della guerra di potere e tra poteri (partiti e magistrati) e le istanze utopistico radicali, a cominciare dai costi della politica. Tema cruciale, quest'ultimo non c'è dubbio, così come lo è la riforma della legge elettorale, ma non altrettanto emergenziali come le urgenze economiche. Argomenti questi forse trattati finora senza il giusto senso delle proporzioni. Un esempio per tutti: quand'anche si dimezzasse l'appannaggio del Quirinale, bersaglio storico del M5S, si recupererebbero un centinaio di milioni; se si abolisse il finanziamento pubblico dei partiti rientrerebbe un miliardo. L'emergenza dell'economia parla invece di imprese che aspettano 100 miliardi di pagamenti per lavori regolarmente svolti!

Dunque ecco la vera emergenza: l'economia reale, priorità in Patria e in Europa, dove sarà effettivamente possibile trovare parte delle soluzioni se diventerà possibile recuperare risorse altrimenti bruciate da un draconiano piano di risanamento, sempre più scollato dal reale stato di salute del Paese da apparire "lunare". Bene fa ora l'Italia del governo di ordinaria amministrazione a portare al prossimo Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo un piano per recuperare «spazi di bilancio». Sono spazi vitali, ossigeno per chi non respira. Bisognava pensarci prima. Certo bisogna pensarci oggi. E anche domani. E lo deve fare un Governo, un Governo vero.

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