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Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2013 alle ore 08:15.

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La grande transizione è finita. Xi Jinping è il nuovo presidente della Repubblica Popolare Cinese; Li Keqiang nelle prossime ore sarà nominato premier.
A mettere i sigilli al passaggio delle consegne ai vertici del potere cinese è stata l'Assemblea Nazionale del Popolo, riunita in questi giorni a Pechino. I 3mila delegati del parlamento rosso hanno acclamato Xi alla presidenza, chiudendo così la delicata fase politica aperta lo scorso autunno dal Diciottesimo Congresso del Partito Comunista che aveva indicato i successori di Hu Jintao e di Wen Jiabao.

Tutto come da copione, insomma. E non poteva andare diversamente perché l'Assemblea, in realtà, non ha alcun potere decisionale, ma funge da passacarte delle decisioni già prese dai vari organismi governativi, tutti strettamente controllati dal Pcc.
Per la seconda volta nella storia della Cina comunista, una transizione di potere si consuma in un clima di ordine e di concordia. Almeno all'apparenza. Segno che l'apparato, oggi come dieci anni fa quando i due leader uscenti furono catapultati ai vertici del Paese, è riuscito a trovare una linea consensuale al suo interno.
La Quinta Generazione, rimasta in anticamera per ben cinque anni (la liturgia non scritta del partito unico indicò come delfini e futuri leader Xi Jinping e Li Keqiang già al Congresso del 2007), può quindi salire sul ponte di comando della superpotenza asiatica. La Quarta, invece, può andare definitivamente in pensione, anche se - nella migliore tradizione cinese - continuerà a influenzare la vita politica nazionale manovrando dietro le quinte.

Il mondo, ma soprattutto i cinesi, si attendono molto dalla nuova leadership. La lista delle cose da fare è lunga e composita. Almeno quanto la lista delle promesse fatte e rifatte nell'ultimo decennio, ma puntualmente disattese dalla leadership uscente.
Sul piano economico, la priorità assoluta è cambiare un modello di sviluppo che mostra sempre di più la corda. Il poderoso salto in avanti spiccato dal Dragone negli ultimi trent'anni ha finito per rendere il Paese dipendente da due fattori esterni: gli approvvigionamenti di energia e di materie prime, e le esportazioni di merci perlopiù a basso costo.
Dopo la grande crisi globale del 2008, Pechino si è resa conto che se il primo vincolo è impossibile da rompere perché è strutturale (le manifatture del made in China consumano più risorse naturali di quanto il Paese sia in grado di produrne), il secondo va spezzato. E anche al più presto. Ecco, dunque, la prima sfida: aumentare i consumi interni, in modo da smarcare l'economia cinese dalle turbolenze della domanda mondiale. Insomma, a dispetto della tradizione confuciana, le parsimoniose formiche dovranno essere trasformate in cicale spendaccione.
La realizzazione di questo ambizioso progetto è strettamente subordinato al lancio di una serie di incisive e coraggiose riforme del sistema economico. Ecco, dunque, la seconda grande sfida: ridimensionare le aziende di Stato e smantellare i monopoli, in modo da aprire la strada alla liberalizzazione di diversi settori dell'economia oggi soffocati dalla mano pubblica.

E richiederà anche il contributo di importanti riforme sociali, perché - fuori dai dogmi - è difficile pensare allo sviluppo della "società armoniosa" tanto cara a Hu Jintao in un Paese dove 170 milioni di persone (il 13% della popolazione totale) tirano a campare con soli 1,25 dollari al giorno.
Da qui la terza sfida: aumentare il reddito disponibile; ovvero, per usare una parabola cara a Wen Jiabao, "mettere i quattrini nelle tasche della gente". Nella Cina di oggi ci sono solo due modi per farlo: colmare il divario di ricchezza scavato nell'ultimo ventennio all'interno del Paese, e rafforzare il welfare state.
Poi ci sono le riforme politiche. Forse è anche vero, come ripete in modo ossessivo la nomenklatura rossa, che la maggior parte dei cinesi è ancora distante dalla concezione liberal-democratica dell'Occidente. Tuttavia, è difficile immaginare che un sistema politico che non rappresenta più nessuno se non se stesso, possa continuare a governare egemonicamente una società in rapida trasformazione come quella cinese di oggi. Ed ecco la quarta sfida, probabilmente la più difficile: il sistema a partito unico andrà almeno "rivisto" in modo da accogliere le crescenti istanze di rappresentanza che, grazie anche a internet, arrivano sempre più forti da ogni parte della società civile.

La lista delle cose da fare è davvero lunga e composita. Il tempo non manca. Le energie neppure. I giovani leoni che sono appena saliti al potere a Pechino avranno davanti un intero decennio per sviluppare l'agenda riformista. Ne va del futuro della Cina. E probabilmente anche del loro.

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