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Questo articolo è stato pubblicato il 21 marzo 2013 alle ore 06:40.
L'ultima modifica è del 21 marzo 2013 alle ore 08:42.

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Nei "ruggenti anni Novanta" gli Stati Uniti vedevano l'Europa come un continente destinato a inesorabile declino. Vinta la guerra fredda, respinta la sfida giapponese, entusiasti della nuova tecnologia dell'informazione, gli americani erano fieri del ritrovato primato economico. I numeri davano loro ragione, anche se in modo meno netto di quanto l'ottimismo d'oltre Atlantico volesse fare credere.

Nel 1990 il reddito per abitante dei 12 principali Paesi dell'Europa Occidentale era pari al 72,3% di quello statunitense, nel 2007 si era ridotto al 70,8. Non proprio un inesorabile declino. Se poi si confronta il 90% più povero della popolazione e si tiene conto del maggior tempo libero di cui godono gli europei il reddito di questi ultimi sale all'80% di quello degli americani. Il divario si ridurrebbe ulteriormente tenendo conto della maggiore durata media della vita in Europa e del peso della spesa sanitaria, assai maggiore e con risultati sociali spesso peggiori negli Stati Uniti. Non pare insomma che, prima della crisi, il "modello" statunitense si dimostrasse inequivocabilmente superiore a quello europeo.

La divaricazione tra Stati Uniti e area euro si è allargata con la crisi. Tra il 2007 e il 2011 il reddito per abitante americano si è contratto in media dello 0,36% annuo, quello dell'area euro dello 0,55. Il divario aumenta ulteriormente nel 2012 e nelle previsioni per i due anni successivi. L'Ocse prevede per il 2013 una diminuzione dello 0,5% del reddito per abitante nell'area euro, contro un aumento dell'1,2% negli Stati Uniti. Nel 2014, oltre Atlantico la crescita sarà di un punto percentuale superiore a quella europea. L'economia statunitense è dunque andata meglio di quella europea non tanto nei "ruggenti anni Novanta" quanto piuttosto nella Grande Recessione e nel suo lento superamento. L'eccessiva rapidità con cui in Europa si sono voluti, o dovuti, ridurre gli squilibri fiscali e il rifiuto di adottare politiche espansive da parte dei Paesi con debito relativamente basso e forte posizione creditoria con l'estero spiegano in parte il diverso andamento economico sulle due rive dell'Atlantico a partire dal 2008. Non solo: le imprese statunitensi sono state più capaci di cogliere le opportunità (ci sono anche quelle) della crisi e le banche, che pure furono la causa di tutto, hanno saputo risanarsi e ricapitalizzarsi meglio di quelle europee. Tuttavia, le diverse politiche macroeconomiche e la diversa vitalità dei sistemi produttivi non sono sufficienti a dare conto per intero della crescita relativamente asfittica prevista per l'area euro nei prossimi anni.

Un fatto nuovo, benché in lunga incubazione, si verifica nell'area della moneta unica: si tratta della crescente cesura tra il Nord e il Sud (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) dell'area stessa, con la Francia quale debole cerniera. Tra il 1999 e il 2011, il prodotto per occupato è cresciuto del 10% nel Nord e solo del 3,5% nel Sud. Quest'ultimo attrae sempre meno gli investimenti diretti dall'estero. Inoltre, in un recente lavoro, Boltho e Carlin osservano che la percezione della corruzione (indice di Transparency International) non solo è più elevata al Sud che al Nord ma, soprattutto, che il divario è aumentato nell'ultimo decennio. Lo stesso è avvenuto per altri indicatori di buon governo stimati dalla Banca Mondiale: rispetto della legalità, qualità della regolazione, efficacia dell'amministrazione pubblica, democrazia (espressa con gli intraducibili voice e accountability), stabilità politica. Il Sud si allontana dal Nord del continente non solo per la minore competitività economica ma anche per la qualità della democrazia, dell'amministrazione e della vita sociale.

L'ampliarsi del divario tra il Nord e il Sud rallenta la ripresa di tutta l'area euro. Rende più difficile quel progresso nell'integrazione - dall'unione bancaria a quella fiscale - che la crisi stessa ha mostrato come irrinunciabile. Alimenta le recriminazioni reciproche, accresce la sfiducia dei Paesi del nord verso quelli del sud, nutre i sentimenti anti europei, per ora confinati a non trascurabili minoranze. A lungo andare, il divario crescente tra Nord e Sud potrebbe minacciare la stessa stabilità della comune moneta. È certo responsabilità urgente e primaria dei Paesi meridionali attuare riforme che comincino a ridurre il divario di produttività e, soprattutto, di "buon governo" con quelli del Nord. Ciò è necessario ma non sufficiente: colmare il vallo tra Nord e Sud è una priorità per l'Europa intera. Nei decenni dopo l'unità, le classi dirigenti italiane non compresero le conseguenze economiche e politiche per l'intero Paese del lasciare crescere il divario tra il Mezzogiorno e il resto d'Italia. L'Unione Europea può fare molto, non solo e non tanto con il trasferimento di risorse ma facendosi essa stessa promotrice di misure per la crescita della produttività e per il miglioramento dell'amministrazione, del rispetto della legge, della democrazia, cominciando dalle proprie stesse istituzioni, diffondendo standard di efficienza e trasparenza. Soprattutto aprendosi a un'autentica democrazia. Programma di lungo periodo, certo, ma un segnale in questo senso è richiesto subito, anche per accelerare la crescita.

giannit@econ.duke.edu

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