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Questo articolo è stato pubblicato il 21 marzo 2013 alle ore 06:44.
L'ultima modifica è del 21 marzo 2013 alle ore 08:40.

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La crisi economica e la riduzione delle risorse finanziarie pubbliche ha riportato di attualità il rapporto tra impresa e cultura. In questi giorni il ministero per i Beni e le attività culturali ha emesso un nuovo decreto per l'approvazione di norme tecniche e linee guida in materia di sponsorizzazione dei beni culturali e di fattispecie analoghe.

È un provvedimento atteso da tempo, perché tenta di rispondere ai numerosi bisogni e alle nuove sensibilità degli ultimi vent'anni. Vent'anni in cui il ruolo dei privati nella valorizzazione del patrimonio culturale è cresciuto fortemente, man mano che il contributo dello Stato andava diminuendo.

Il bisogno di incoraggiare e rendere più agevole il rapporto imprese-cultura è stato manifestato più volte, dall'intervento del presidente Napolitano agli Stati Generali della Cultura organizzati dal Sole 24 Ore, fino al lavoro del Comitato Comunicare con la cultura dell'Associazione Civita e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Comitato che ha posto attorno allo stesso tavolo imprese e assessori alla cultura, e il cui lavoro è stato - con soddisfazione dei suoi membri - tra i riferimenti del decreto legge in questione.

Resta aperta una questione di prospettiva che sottolineiamo in virtù dell'apertura di credito dimostrata dal ministero. A una più approfondita lettura del decreto, emerge che esso non solo non risponde del tutto alle aspettative delle aziende e delle istituzioni pubbliche beneficiarie, ma soprattutto che non coglie la realtà sperimentata ogni giorno da chi lavora nello sviluppo dei partenariati pubblico-privato per la cultura.

Il principio che ha ispirato il legislatore è riassunto nella premessa: "Il valore pubblicitario e di immagine che le imprese possono ritrarre dall'associazione del proprio nome o del proprio marchio al restauro di importanti monumenti dimostrano che esiste un mercato all'interno del quale questi valori sono contendibili". I benefici che uno sponsor può avere dalla notorietà dell'evento culturale sarebbero "molto più intensi o protratti nel tempo rispetto a quelli garantiti da una mera comunicazione pubblicitaria".

La finalità delle norme è quella di "regolare il confronto concorrenziale" tra le aziende che si sfidano per conquistare il diritto al sostegno di un'opera, non già quello di "innovare, nel senso della sburocratizzazione e anche del miglior uso delle scarse risorse disponibili", come richiesto nell'intervento del capo dello Stato.

Non entro nell'analisi delle disposizioni operative ma, come rappresentante di un'azienda che da anni contribuisce allo sviluppo culturale del Paese, non nascondo di aver provato un senso di delusione nel leggere i principi. Chiunque abbia esperienza in materia sa che non è quasi mai la ricerca di vantaggi promozionali o economici che motiva un'azienda a investire in cultura: più spesso è il senso di responsabilità sociale verso il territorio.

Così come è noto che acquistare uno spazio pubblicitario è più semplice e meno complesso di definire una partnership culturale: nel primo caso ci si muove in un iter amministrativo chiaro, dove i contenuti dell'accordo non sono oggetto di continue revisioni. Al contrario, oggi ci si trova nella situazione di dover "elemosinare" visibilità nel comunicato stampa di una mostra o negoziare in corso d'opera l'esposizione del brand in un museo.

Nella premessa del decreto vi è un altro vizio di interpretazione smentito dall'esperienza: quello per cui sarebbe tale "l'appetibilità" di una sponsorizzazione culturale da renderla oggetto di contesa tra più soggetti e rendere necessaria una qualche forma di disciplina che ne regoli l'accesso. Serve un bando di gara per selezionare gli sponsor di una mostra.

Anche qui, basta avere un po' d'esperienza per sapere che anche in tempi di vacche grasse la fila di coloro che sgomitano per poter finanziare mostre o concerti non è così affollata. Basta avere un minimo di esperienza per sapere come certe complicazioni burocratiche finiranno per scoraggiare i finanziatori.

Queste osservazioni hanno l'intento costruttivo di superare i pregiudizi di fondo che animano i dibattiti in materia. Spero che uno sguardo di verità sul modo in cui le imprese si rapportano con la cultura aiuti la transizione verso un sistema in cui la politica sia disposta a dire più "sì" ai soggetti che possono concorrere allo sviluppo cultura nel nostro Paese.

Gianluca Comin è direttore relazioni esterne Enel e coordinatore del Comitato Comunicare con la cultura di Civita

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