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Questo articolo è stato pubblicato il 22 marzo 2013 alle ore 07:15.
L'ultima modifica è del 22 marzo 2013 alle ore 07:54.

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Così introverso e spigoloso da saper accendere la passione. Un atleta fatto ossimoro. Pietro Mennea se ne è andato ieri, a quasi 61 anni, per un male incurabile: nella scia della sua vita, del suo correre, dei suoi record, dei suoi indimenticati 200 metri resta il fuoco sacro dello sport. Così raro oggi, divorato da milioni di euro, di contratti e comparsate tv. «Avevo 17 anni, ero alla scuola di atletica di Formia, facevo il mezzofondo in pista, Mennea mi diede due pacche sulle spalle e mi disse "Corri" con una tale forza da accendere in me l'interruttore della motivazione, della passione», così lo ricorda Stefano Baldini, direttore tecnico del settore giovanile della federazione italiana di atletica.

Trovare giovani talenti è il nuovo mestiere del maratoneta che vinse l'oro ad Atene 2004: «Mennea rimane un velocista unico - spiega - come unici e irripetibili sono tutti i grandi campioni dello sport. Oggi è quasi impossibile trovare un atleta capace di correre con gli stessi risultati vincenti 100, 200 e 400 metri perché ci si specializza e ci si focalizza solo su una distanza». Un campione immenso cui Trenitalia dedicherà il primo Frecciarossa 1000.

Pietro Mennea, nato a Barletta nel 1952, corre per lasciarsi alle spalle la miseria: papà sarto e mamma casalinga. Corre e sfida automobili e vespe per raggranellare qualche liretta. Poi, le prime gare e la scoperta del suo allenatore, Carlo Vittori: «Lo vidi correre per la prima volta ai Campionati italiani giovanili, sulla pista di Ascoli Piceno, nel 1968, nei 300 metri: lì capii che era un talento naturale, una forza della natura. Gli dissi solo che bisognava mangiare un po' di più, era così magretto...». Mangia Pietro, le orecchiette alle cime di rapa e gli involtini della mamma sono il sugo della sua carne. Sprigiona voglia di vincere dai polmoni, divora cinque ore di allenamento ogni giorno per migliorarsi, e ce la fa: «Ha dimostrato - continua il professor Vittori - che, allenandosi in modo meticoloso, anche un velocista può migliorare. Le doti che gli riconosco sono impegno e testardaggine: era un martello pneumatico».

I risultati arrivano e arriva anche il soprannome di "freccia del Sud": dal 3° posto al debutto internazionale agli Europei del 1971 fino al record del mondo del 1979. Universiadi di Città del Messico, un mezzo giro di pista morbido e potente, l'urlo della folla è il sigillo della storia: il suo 19"72 è incrollabile fino al 19"66 di Michael Johnson nel 1996. Poi i trionfi: due medaglie mondiali, sei europee e tre ai Giochi. Con l'oro di Mosca 1980, nell'Olimpiade dimezzata dalla Guerra fredda, a incoronare una carriera: parte dall'ottava e ultima corsia, con l'handicap tattico di non poter controllare gli avversari. Allo stacco gli altri van meglio e in curva Mennea è dietro di 7-8 metri. Sembra un'altra delusione, nasce la sua giornata perfetta: è primo bruciando lo scozzese Wells. E a Mosca trionfa nel salto in alto anche Sara Simeoni: «Con Pietro un pezzo della mia storia se ne va. Resta l'esempio di un uomo che con tenacia e caparbietà ha fatto risultati eccezionali».

E non solo sul tartan. Questo è il limite degli atleti di oggi. Non di Mennea che è stato tutto, e sempre in silenzio: 4 lauree, avvocato, commercialista, curatore fallimentare, scrittore, europarlamentare, prof di educazione fisica.

Per Londra 2012, gli inglesi, che non son mai teneri con noi italiani e non ci regalano nulla, hanno ribattezzato la centralissima stazione di High Street Kensington con il nome Pietro Mennea, perché sanno quanto ha corso avanti nella storia con le sue gambe. E noi oggi lo vediamo correre alla velocità dei quadri di Umberto Boccioni, a perdifiato.

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