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Questo articolo è stato pubblicato il 06 aprile 2013 alle ore 09:43.

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La Polonia è perduta? Non ancora, ma i suoi leader sembrano determinati ad aprire una via alla catastrofe. In Europa la Polonia è un esempio di successo (relativo): prima è scampata alla recessione che ha colpito gran parte della periferia della Ue, poi ha registrato una ripresa solida.

La crescita di recente ha cominciato a rallentare, soprattutto a causa dell'austerity, sommata alla decisione delle autorità di Varsavia di emulare la Banca centrale europea alzando i tassi di interesse nel 2011. Rimane il fatto che rispetto al resto del continente in Polonia non assistiamo, in economia, a scene da film dell'orrore.
Molto di questo successo è merito del fatto che la Polonia ha conservato una valuta propria, lo zloty, e l'ha lasciata libera di fluttuare. Grazie a questo, negli anni dei grandi flussi di capitali verso i Paesi della periferia, la Polonia ha conosciuto un apprezzamento della valuta invece che un differenziale di inflazione e quando è arrivata la crisi ha potuto correggere il tasso di cambio in tempi rapidi.
Cosa vogliono fare i governanti polacchi? Entrare nell'euro. Una decisione incomprensibile. Pensate a Spagna, Irlanda e Cipro. Di quali altre prove i governi hanno bisogno per capire che l'euro è una trappola, che con esso si corre il serio rischio di rimanere senza altre opzioni di fronte a una crisi? Anche se credete alla leggenda della Lettonia (e se ci credete fate male), dovete ammettere che entrare nell'euro è - nella migliore delle ipotesi - un azzardo, dai rischi potenzialmente micidiali.
Taglia unica per nessuno. Questa settimana Joe Wiesenthal, del Business Insider, ha riportato i dati sconfortanti dell'indice Pmi in Europa (un indicatore basato su inchieste condotte fra i direttori degli acquisti di un campione da aziende utile come anticipatore dei dati economici ufficiali): il Vecchio continente precipita in recessione sempre di più, perfino nei Paesi del nocciolo duro.

Spesso le discussioni sull'Europa risentono di una tendenza a mescolare due questioni diverse. Una riguarda l'entità del rigore imposto ai Paesi debitori. Le nazioni debitrici non hanno quasi altra scelta che accogliere le richieste della Troika, a meno di non essere disposte ad abbandonare l'euro, passo che nessuno è pronto a compiere.
Sarebbe nell'interesse della Troika stemperare le richieste di austerity. Ma anche gli antirigoristi sarebbero d'accordo sul fatto che una dose di rigore in questi Paesi è inevitabile: è il prezzo da pagare per una politica monetaria "taglia unica".
C'è un'altra questione: la situazione generale dell'Europa. I Paesi della periferia sono stati costretti ad adottare misure di austerity, non compensate da misure di segno opposto nei Paesi del nocciolo duro. Il risultato è una drastica contrazione della spesa pubblica nel Vecchio continente.
L'euro è un costrutto ancora più imperfetto di quello che si sarebbe potuto prevedere basandosi sulla teoria dell'area valutaria ottimale. Questa teoria mette l'accento sul problema di un sistema uguale per tutti di fronte a shock asimmetrici: i Paesi devono cavarsela da soli se entrano in recessione quando nel resto dell'area valutaria l'economia va a gonfie vele.

In fasi di debolezza questo nodo è reso più grave dall'asimmetria della pressione a cui devono far fronte i Paesi con le economie in crisi che sono costrette ad adottare politiche di rigore mentre quelle migliori non sentono impellenza di adottare misure più espansive: così l'orientamento generale pende dal lato della deflazione.
È lo stesso problema con cui dovevano cimentarsi i Paesi quando vigeva il sistema aureo: nodo che risolsero abbandonando quel sistema.
Se le autorità europee vogliono salvare l'euro devono combattere la tendenza deflattiva. Ma, a quanto sembra, non sono nemmeno disposte ad ammettere che il problema esiste.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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