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Questo articolo è stato pubblicato il 22 aprile 2013 alle ore 08:07.

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Nell'osservare le immagini del corteo di Roma e dei militanti Cinque Stelle che si mostrano tanto aggressivi quanto disorientati, risulta abbastanza chiaro un punto: Beppe Grillo ha finito per perdere una battaglia politica che fino a poche ore prima stava vincendo.

In fondo se ne rende conto egli stesso e se ne preoccupa, essendo molto più perspicace di certi suoi "fan". L'obiettivo di Grillo era strategico e consisteva nel destabilizzare in prima battuta il Partito democratico e a seguire l'intero assetto partitico. Con parecchio acume il leader dei Cinque Stelle aveva compreso che il vero terreno di scontro, in questa fase, non era il governo né il funzionamento del Parlamento, bensì l'elezione del presidente della Repubblica. Perché la necessità di scegliere e decidere nel giro di pochi giorni, forse di poche ore, metteva alle corde un sistema anchilosato e disabituato alle sfide dentro-o-fuori.
Così Grillo si è giocato la sua partita con abilità, mettendo in campo il nome di un giurista stimato e di alto profilo quale Stefano Rodotà, con un rilevante passato politico nella sinistra. L'operazione ha contribuito non poco a disarticolare il Pd. Il nome di Rodotà è diventato in breve tempo il simbolo della capacità di pressione che i Cinque Stelle hanno saputo esercitare sulla base parlamentare di quel partito, soprattutto fra i giovani sensibili al messaggio nuovista e anti-casta del movimento "grillino". Poi qualcosa si è incrinato. Qualcuno ha creduto che la crisi del Pd potesse arrivare fino ad accettare sul serio il nome di Rodotà come capo dello Stato all'indomani della bocciatura di Marini e Prodi. La tentazione c'è stata, ma poi ha prevalso l'istinto di sopravvivenza. Del resto, Grillo è l'autore dello slogan elettorale «Arrendetevi, siete circondati». Accettare Rodotà, unico nome imposto da Grillo a suon di voti, voleva dire in effetti per il Pd uscire con le mani in alto.

A quel punto, una volta decisa la convergenza delle grandi forze su Giorgio Napolitano, il buon senso avrebbe consigliato di ritirare Rodotà per rispetto al capo dello Stato in procinto di essere rieletto. Grillo avrebbe manifestato il suo dissenso votando scheda bianca, ma non ci sarebbe stato lo spettacolo penoso dei parlamentari che rimangono seduti al momento della proclamazione. E soprattutto si sarebbe evitata quella grave contrapposizione, del tutto forzata, fra il palazzo e la piazza. È capitato altre volte nella nostra storia che Montecitorio fosse assediato dalla folla, per esempio nel "radioso maggio" del 1915: ma fu la premessa di sviluppi molto negativi, come dovrebbero sapere anche nel M5S.
Grillo ha capito la pericolosità della deriva. Un aiuto a comprendere glielo ha dato proprio Rodotà, ricordandogli che «il dissenso si esprime nelle istituzioni» e che bisogna stare attenti all'uso di certi termini (tipo "colpo di Stato", poi derubricato a "golpettino": chiedere ai cileni ragguagli in merito). Sta di fatto che la giornata di ieri è trascorsa a rimediare alla meglio agli errori compiuti. Abbiamo visto un Grillo ansioso di non passare da incendiario. Infatti ha spento in parte i fuochi, addirittura rinunciando a sovraesporsi. Ma il suo vero timore è che la rielezione di Napolitano finisca per dare una frustata vitale al sistema decotto. Quell'insistere nel dire che «tanto il governo non durerà, tanto non c'è niente da fare», tradisce la paura del leader populista: che una presidenza forte sia in grado di ridurre alla ragione i partiti, obbligandoli a compiere i passi riformatori fin qui rifiutati. E questo sarebbe assai dannoso per il messaggio di Grillo. Il quale si è appunto accorto di aver perso, anche per i suoi sbagli, la battaglia che stava vincendo.

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