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Questo articolo è stato pubblicato il 28 aprile 2013 alle ore 08:35.

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Quando Angela Merkel ha dichiarato che la politica di austerità va perseguita, perché la parola "austerità" in fondo altro non significa che il dovere di pagare i debiti, forse non si rendeva conto che stava sintetizzando "i primi cinquemila anni di storia dell'umanità". È questo il sottotitolo del libro "Debt" dell'antropologo David Graeber, il quale sottolinea la centralità del debito nel rapporto tra ricchi e poveri e la straordinaria confusione morale che da sempre l'ha accompagnata. Confusione morale che si riscontra non solo nel tedesco moderno, dove "schuld" significa a un tempo debito e colpa, ma che pure è centrale nelle fedi religiose se, persino nella preghiera più diffusa della cristianità, si invoca il "Padre nostro" perché "rimetta i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori".

Austerità e debito rappresentano più che mai divergenti posizioni negli organismi europei, dove i rappresentanti tedeschi, compreso il membro del Consiglio esecutivo della Bce Asmussen, spingono affinché la Bce non abbassi i tassi, che favorirebbero una politica di crescita nell'Eurozona, ma al contrario adotti tassi più alti, favorevoli alla politica economica tedesca.
La confusione morale si accompagna qui alla confusione storica, dacché la Germania vive come l'incubo peggiore della sua storia la grande inflazione che portò al disastro della Repubblica di Weimar, ma dimentica ora che la politica di austerità restringe la domanda, impedisce la crescita e rende i debiti impossibili da restituire. Da Paul Krugman a Joseph Stiglitz è giunta la prova dei fatti che la politica del rigore e dei tagli deprime sempre di più i diritti fondamentali dei cittadini più poveri, quali quelli al lavoro, all'istruzione e alla sanità e rende impossibile la ripresa delle economie, condannandole a depressioni senza termini.

La Germania sembra oggi dimenticare sia che l'attuale pericolo per l'Europa non è l'inflazione, ma la deflazione e il default, sia che proprio la stessa Germania è stata nel 1948 la beneficiaria di uno dei più magnanimi atti mondiali di remissione del debito. Infatti, negli anni 40 del secolo scorso, le potenze di occupazione cancellarono il 93% del debito dell'era nazista, posponendo inoltre il pagamento degli altri debiti per circa mezzo secolo. Così la Germania, il cui rapporto debito/Pil nel 1939 era del 675%, all'inizio degli anni 50 aveva un livello di indebitamento del 12%, molto inferiore a quello dei vittoriosi alleati, permettendo così il miracolo tedesco del dopoguerra. Sarebbe forse il caso di ricordare allora alla Germania, oltre alla Repubblica di Weimar, il Piano Marshall, nonché lo spirito di un'Unione politica europea, teorizzato da alcuni dei suoi grandi intellettuali di spicco, come Habermas e Böckenförde.

La situazione della Bce, che può costituire l'unico strumento di rilancio dell'economia europea, è da tempo fortemente influenzata dalla politica tedesca, la quale tende a limitarne l'autonomia per farne non la Banca federale d'Europa ma una sorta di delegata Bundesbank, causa sicura di disintegrazione e di frammentazione politica e monetaria.
Sempre più attuale pare oggi il destino dell'euro, come indicato nel saggio dello scorso ottobre sulla New York Review of Books di George Soros. Se la Germania vuole rimanere nell'euro non può continuare a imporre agli altri Paesi una politica recessiva e impedire che i Paesi debitori possano partecipare a un'Unione politica e economica che realizzi il sogno di John Maynard Keynes di un sistema monetario internazionale nel quale creditori e debitori siano responsabili per mantenere la stabilità.
Un'uscita della Germania dall'euro, per falsi moralismi e ottusi egoismi, checché ne pensi Soros, non vorremmo mai succedesse, auspicando invece che l'attuale atteggiamento di dominio tedesco sull'Europa si possa trasformare in una straordinaria cooperazione di civiltà tra i popoli.

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