Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2013 alle ore 07:27.

My24

Di austerità si muore. E di debito? Gli economisti sono divisi. Meno però di quanto si creda, a volte strumentalmente. Nessun economista sostiene che l'austerità sia utile in una fase di contrazione del reddito e dell'occupazione.

Gran parte degli economisti è tuttavia convinta che l'espansione fiscale non sia ugualmente efficace in ogni tempo e a ogni latitudine, nella consapevolezza che il cosiddetto moltiplicatore (quanto reddito produca un euro aggiuntivo di spesa pubblica) dipenda dal rapporto tra reddito effettivo e reddito potenziale, dalle aspettative, dall'apertura internazionale dell'economia, da come l'economia in questione è entrata nella crisi. Al lato opposto, pochi economisti accettano la posizione estrema di chi afferma che il debito pubblico non produce effetti negativi.
Prima che fossero evidenziati gli errori di calcolo di Rienhard e Rogoff , pochi credevano in un numero magico (il 90% nel rapporto debito/Pil) quale spartiacque tra crescita e ristagno. Molti però sono convinti, sulla base di argomenti teorici e storici, che a parità di altre circostanze un debito elevato e crescente rallenta lo sviluppo. Lo dimostra anche la storia economica italiana. Keynes, al quale si attribuiscono troppe cose che lo avrebbero fatto inorridire, andò molto cauto nel sostenere un'espansione fiscale senza limiti, della quale valutava lucidamente i rischi, anche nel caso estremo della lotta per la sopravvivenza stessa dell'Inghilterra. La grande maggioranza degli economisti, dunque, non sposa l'alternativa secca tra espansione fiscale e austerità. Sa che la scelta degli strumenti (non solo di quelli macroeconomici) richiede attenzione alle circostanze specifiche. Sa, per esempio, che quanto funziona negli Stati Uniti potrebbe non essere applicabile all'Italia. Ciò vale anche per il giudizio etico al quale giustamente invita Michael Higgins, poeta e presidente della Repubblica Irlandese.

A fronte dell'enorme valore etico-sociale della riduzione della disoccupazione ci si deve chiedere se l'indebitamento eccessivo non comprometta lo stato sociale (come sostiene Lindert), se non scarichi un peso eccessivo sulle generazioni future, se la spesa non finisca per rafforzare posizioni di rendita piuttosto che stimolare la creazione di imprese e posti di lavoro.
Se si sgombra il campo dalle posizioni estreme di pochi, utili forse a guadagnare qualche punto nel gioco mediatico ma non a disegnare soluzioni, è facile vedere due specificità del caso italiano, rispetto sia ad altri Paesi sia alla nostra stessa storia. La prima è che - contrariamente a quanto è avvenuto altrove nel 2008 o nell'Italia dei primi anni Trenta - la crisi ha colpito un'economia che da almeno dieci anni era in sostanziale ristagno. La nostra economia è stata incapace di cogliere le occasioni di crescita offerte dalle nuove tecnologie, da tassi d'interesse mai tanto bassi e da uno straordinario sviluppo dell'economia mondiale. Per oltre dieci anni, il Paese (governi, imprenditori e sindacati) non ha trovato soluzioni per i problemi strutturali che ne frenavano la crescita, pure molto vivace in epoche non lontane. Il calo della domanda ha reso più precaria un'economia che resta debole soprattutto "dal lato dell'offerta". Ciò significa che è relativamente piccolo il divario tra il reddito effettivo e quello potenzialmente ottenibile con una politica volta solo a stimolare la domanda interna.

La seconda peculiarità dell'economia italiana attuale è il livello del debito, mai così elevato in tempo di pace nei 152 anni di storia unitaria e oggi secondo solo a quello del Giappone tra i Paesi medio-grandi. Un debito di queste dimensioni distorce l'uso delle risorse, limita gli spazi di manovra della politica economica, ipoteca il futuro del Paese. Soprattutto, espone al rischio noto agli economisti come sudden stop (blocco subitaneo, inaspettato) del suo finanziamento. Un evento al quale siamo andati pericolosamente vicini nell'estate-autunno 2011. Un simile blocco ha oggi probabilità piuttosto basse ma certo non nulle: se esso avvenisse, le conseguenza per l'occupazione e i redditi sarebbero esplosive, incalcolabili. Nessun governo può esporre il Paese a un simile rischio. Non basta dunque "convincere l'Europa" a essere meno rigida con l'Italia, è importante soprattutto convincere, ad esempio, i fondi pensione degli operai del Michigan a continuare a comprare titoli pubblici italiani.
Le due peculiarità dell'economia italiana rendono la strada molto stretta. È illusorio pensare, e la grande maggioranza degli economisti non lo pensa, che si possa rilanciare uno sviluppo che latita da oltre 15 anni solo (ancora una volta) con un forte aumento di spesa pubblica, anche se è certamente importante sfruttare ogni possibile spazio per stimolare la domanda, tenendo sempre d'occhio i mercati ("convincere" l'Europa non è sufficiente a esorcizzare il rischio di blocco subitaneo degli acquisti di titoli italiani). All'Europa, piuttosto che "deroghe", dobbiamo chiedere politiche fiscali espansive dove esse sono possibili (per esempio in Germania), un più coraggioso uso della leva monetaria e quell'unione bancaria che riaprirebbe i canali del credito nei paesi mediterranei.

Vi è ampia convergenza, da ultimo nel documento dei "saggi" del Presidente, sulle cose da fare per rilanciare la produttività del sistema (per cominciare: meno burocrazia, più concorrenza, revisione delle spese, riforma fiscale a favore della produzione e del lavoro). Queste cose vanno fatte subito, contestualmente, non successivamente, a quel po' di stimolo della domanda che sarà possibile realizzare e all'azione diplomatica a favore di maggiore espansione monetaria e fiscale in Europa e di una rapida attuazione dell'unione bancaria.

Shopping24

Dai nostri archivi