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Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2013 alle ore 06:44.

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Tra la sorpresa quasi generale, il Giappone è diventato il portabandiera dei Paesi industrializzati decisi a rompere il fronte dell'ortodossia rigorista e sperimentare una combinazione aggressiva di stimoli monetari e di bilancio. Naturalmente è ancora troppo presto per dire se la Abenomics (dal nome del nuovo primo ministro, Shinzo Abe) avrà successo, anche se i primi segnali sono positivi. Ma perché proprio il Giappone ha imboccato questa strada?
David Pilling, editorialista del Financial Times, recentemente ha ipotizzato che questo drastico cambio di rotta sia stato provocato dal duplice shock dello tsunami del 2011 e del sorpasso della Cina, che ha scalzato il Giappone dalla posizione di seconda economia mondiale: questo doppio trauma ha fatto breccia nel fatalismo dominante e ha convinto la classe dirigente che bisognava fare qualcosa. Una volta ho detto, scherzando, che in America per farci decidere a stimolare l'economia ci voleva la minaccia di un'invasione aliena, e pazienza se questa minaccia si fosse poi rivelata una bufala. A quanto sembra il Giappone ha trovato l'equivalente morale dell'invasione aliena. Buon per loro.
Il Sol Levante cambia passo
Le buone notizie continuano ad affluire: è ancora presto per proclamare il lieto fine, ma è evidente che c'è stato un cambiamento importante nella psicologia e nelle aspettative dei giapponesi, e questa è la cosa più importante. Perché sembra che funzioni così bene? Parecchio tempo fa ho sostenuto che per dare slancio all'economia in una situazione di trappola della liquidità, la Banca centrale deve promettere in modo credibile di essere irresponsabile: in altre parole, deve convincere gli investitori che non frenerà l'espansione monetaria quando l'economia sarà tornata alla piena occupazione e l'inflazione avrà cominciato a crescere. Non è una cosa facile da fare.
Indipendentemente da quello che dicono i governatori delle Banche centrali, la storia dimostra che spesso e volentieri approfittano della prima occasione utile per rientrare nei ranghi. I casi in cui questi sforzi per modificare le aspettative degli investitori hanno avuto successo di solito sono stati accompagnati da drastici cambiamenti di sistema, come quando il presidente Roosevelt fece uscire gli Stati Uniti dal sistema aureo. Ed è qui che entra in gioco l'equivalente morale della mia teoria sull'invasione aliena: gli shock di cui parlavamo prima, in Giappone, hanno modificato la percezione di quello che serve fare, tanto da rendere finalmente credibile l'irresponsabilità, o quanto meno un impegno serio e prolungato per un'inflazione più alta.
In tutto questo Martin Feldstein, ex presidente del Consiglio economico della Casa Bianca sotto la presidenza Reagan, chiede che la Fed metta fine ai suoi sforzi nella stessa direzione, scatenando l'ira dell'economista David Glasner, che in un recente articolo online ha accusato Feldstein di non rendersi conto che modificare le aspettative di inflazione è l'elemento fondamentale. Ma è molto peggio di quel che crede Glasner.
Ecco cosa ha scritto Feldstein il 9 maggio sul Wall Street Journal: «Bernanke ripete che l'uso di politiche monetarie anticonvenzionali esige un'analisi costi/benefici che metta a confronto i guadagni che le misure di espansione quantitativa possono garantire e i rischi di bolle dei prezzi, inflazione futura e gli altri possibili effetti di un rapido accrescimento dello stato patrimoniale della Fed». Insomma, dobbiamo interrompere la politica di espansione quantitativa perché potrebbe portare a un incremento dell'inflazione, quando lo scopo principale è proprio quello di produrre un inflazione (un po') più alta.
Potremmo anche dire che se l'espansione quantitativa fallirà sarà perché persone come Feldstein stanno facendo del loro meglio per ostruire il suo sbocco principale.
© 2013 The New York Times
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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