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Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2013 alle ore 06:45.

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L'affare Enimont, assimilato dalla coscienza mediatica del Paese come spartiacque giudiziario tra la prima e la seconda Repubblica, fu in realtà uno scontro di potere che alla fine degli anni '80 determinò in chiave conservativa il futuro di una fetta importante del sistema manifatturiero italiano.
Raul Gardini, il leader del gruppo Ferruzzi che aveva il controllo della Montedison e in quel momento era il secondo player dell'industria nazionale, cercò con tutte le forze di privatizzare la joint chimica realizzata sotto la regia di Mediobanca al 50% con l'Eni, per dare vita a un grande polo mondiale nel settore delle plastiche di derivazione agricola. La politica di casa nostra si oppose a questo disegno e utilizzò ogni mezzo per togliere all'imprenditore ravennate Enimont e, come conseguenza diretta, anche la Montedison.

La fine di questa controversa alleanza pubblico-privato è del 1990: l'anno successivo, Gardini fu allontanato in maniera traumatica dal gruppo Ferruzzi e la moglie Idina Ferruzzi, figlia del fondatore dell'impero, Serafino, separò i propri interessi da quelli dei fratelli. Il 23 luglio 1993, in piena tangentopoli, Gardini si suicidò nella casa milanese di Piazza Belgioioso. A poche ore da un interrogatorio già fissato (e lungamente atteso) con il sostituto procuratore Antonio Di Pietro. Due giorni prima si era tolto la vita in carcere Gabriele Cagliari, l'ex presidente dell'Eni.

Cosa avrebbe fatto Gardini, se avesse vinto lo scontro su Enimont? Quale direzione avrebbe preso il corso delle cose se il vento del cambiamento alzatosi alla metà degli anni '80 sul panorama economico-finanziario nazionale non si fosse trasformato in uragano politico-giudiziario? Un'esigenza di modernizzazione interpretata in maniera diversa da personaggi emergenti come Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi, oltre allo stesso Gardini, in campo industriale; sul fronte della politica da Ciriaco De Mita e Bettino Craxi, a cavallo degli anni '70-80 (fino alla nascita del Caf, l'alleanza con Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani); e da Romano Prodi, che di Gardini fu amico e consulente, come economista e presidente dell'Iri, prima di diventare a sua volta leader di partito.

La vicenda umana e imprenditoriale di Gardini sarà oggetto della puntata di giovedì sera a "La storia siamo noi" di Gianni Minoli, su Rai3, con i misteri, le ricostruzioni e la voce di molti dei protagonisti dell'epoca. A vent'anni dalla scomparsa dell'industriale romagnolo, che nel 1992 diventò familiare al grande pubblico grazie alle regate del Moro di Venezia in Coppa America, una sfida che volle affrontare per amore della vela ma anche per le ricadute tecnologiche nell'ambito dei nuovi materiali, in molti pensano che le idee, la visione strategica e il suo coraggio avrebbero aiutato la crescita industriale dell'Italia. L'industria è il tema che ha accompagnato Gardini per tutta la vita. L'industria e l'Europa. In dieci anni, dal 1980 al '90, quando ebbe in mano il timone della Ferruzzi, ereditato per successione naturale alla morte del suocero (morto in atterraggio a Forlì con l'aereo privato), trasformò un gruppo basato sul trading dei cereali in una multinazionale europea dell'agroindustria con sede a Ravenna. Nell'80, il peso del manifatturiero della Ferruzzi (produzione di olio, farine vegetali e zucchero) non superava il 20% dei circa 3mila miliardi di lire di fatturato: nel '91 il rapporto è invertito e il gruppo rappresenta un colosso da oltre 20mila miliardi di ricavi consolidati, con più di 50mila dipendenti.

Quando, nel 1987, scalò in Borsa la maggioranza della Montedison, una delle prime mosse di Gardini fu di portare in consiglio d'amministrazione Rita Levi Montalcini e l'allora leader dei Verdi italiani (e futuro presidente dell'Enel), Chicco Testa. «Dobbiamo far dialogare agricoltori, ricercatori e industriali della chimica», diceva. Non solo il progetto della banzina verde, o bioetanolo, proposto a livello europeo per fronteggiare il problema delle eccedenze agricole dell'Unione e diminuire la dipendenza dagli idrocarburi, un'idea che fu accolta bene a Bruxelles e in Francia, ma che in Italia portò la Ferruzzi in rotta di collisione con quasi tutti, dalla Fiat all'Eni, agricoltori compresi.

La vera scommessa riguardava i nuovi materiali di origine vegetale, come la plastica biodegradabile prodotta da Novamont con il brevetto Mater-bi, e Gardini voleva giocarla da leader della chimica italiana, abbandonando settori obsoleti e riconvertendo siti industriali inquinanti, come Marghera. Ma la guerra del Golfo, con la turbolenza e le incertezze dei mercati, e il naufragio di Enimont compromisero in modo irreparabile il disegno che comunque non piaceva al sistema politico nazionale. E neppure a Enrico Cuccia, leader di Mediobanca, tradizionale alleato della Ferruzzi, che però dopo la conquista della Montedison da parte di Gardini (nell'occasione spalleggiato da Prodi) prese le distanze dall'imprenditore romagnolo.

Ravenna, che ha dedicato una via del centro storico a Gardini, così come a Serafino Ferruzzi, non dimentica. E, naturalmente, non dimenticano i familiari: la moglie Idina e i figli Eleonora, Ivan Francesco e Maria Speranza, hanno infatti pensato di istituire alla memoria di Raul Gardini una borsa di studio per giovani ricercatori nel campo della chimica verde. Oggi l'integrazione della filiera agricoltura-industria della plastica non è più un'utopia e Novamont, guidata da Catia Bastioli, vent'anni fa giovane ricercatrice del gruppo Montedison, sta realizzando la riconversione a biomassa del petrolchimico di Porto Torres, in Sardegna, attraverso una joint realizzata proprio con l'Eni. Il sogno riparte da dove era finito.

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